Il vero intrepido è Gianni Amelio. Il sessantottenne regista calabrese, ultimo Leone d’oro italiano nel 1998 per Così ridevano, da trent’anni coltiva un’idea di cinema non arrendevole ai cascami senza gloria della commedia all’italiana. Amelio è aperto ai “generi”, tra cui il giallo nella chiave politico-indiziaria che fu di Leonardo Sciascia, ed è un autore spesso ispirato dalla letteratura o curioso di altri luoghi, dall’Albania alla Cina, all’Algeria. Lontananze prive di esotismo, che gli consentono di illuminare dinamiche storico-sociali a noi vicine e tensioni molto personali. E’ il caso della relazione padri-figli, ovvero della ricerca di una figura genitoriale, che, oltre l’autobiografismo dell’Amelio cresciuto senza padre, ricorre nella sua filmografia da Colpire al cuore (il film italiano più acuto sugli anni del terrorismo) a Il ladro di bambini, da Lamerica sull’esodo albanese verso le nostre coste a Il primo uomo di Camus.
Ora ecco L’intrepido, ieri in concorso a Venezia, il cui titolo rende omaggio a un popolare fumetto d’antan di cui il piccolo Amelio era un divoratore, identificando nelle fantasiose avventure di quelle pagine un principio di realtà che, crescendo, si ostina a non volere inficiare. Infatti qui il protagonista Antonio Pane / Antonio Albanese è un Candido dei giorni nostri a Milano, un uomo di mezza età disoccupato e divorziato, tuttavia non rassegnato al pessimismo imperante (a proposito, Sciascia si ispirò al racconto filosofico di Voltaire sull’ottimismo in Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia). Antonio cerca di far lievitare il sentimento del futuro nel figlio sassofonista, il ventenne Ivo, o in una giovanissima Lucia di cui s’invaghisce, mentre si presta nel ruolo di “rimpiazzo” di qualunque mestiere pur di sbarcare il lunario. Sostituisce per poche ore o qualche giorno chi si assenta: lo vediamo sulle impalcature come muratore, poi intento a consegnare le pizze, operaio e minatore (in Albania!), accompagnatore di bambini (un’altra autocitazione in filigrana), venditore di scarpe nel negozio-paravento del compagno dell’ex moglie…
L’intrepido ambisce alla dimensione della favola su una Italia che timidamente, ma anche ironicamente non si rassegna al declino di cui molti cianciano e che pochi contrastano. Antonio parla poco ed è sempre disponibile, gli piacciono tutti i lavori. Il film non è un elogio della “flessibilità” sebbene contenga un accenno caustico alla possibilità di scioperare da parte di chi il lavoro ce l’ha. Piuttosto è una testimonianza di vitalità che proviene dai margini e per questo più preziosa. E se la fragile Lucia si lascia infine sconfiggere dalla inquietudine, Ivo invece ritroverà il fiato e il talento per il sax grazie al viatico paterno (sono due attori esordienti, Livia Rossi e Gabriele Rendina).
Di un altro declino, quello dell’impero americano forse meno evidente eppure non meno radicale del nostro, narra il secondo film in gara ieri. E‘ il documentario The Unknown Known (“Il noto ignoto”) che il premio Oscar Errol Morris dedica alla figura di Donald Rumsfeld, uno degli uomini politici USA più influenti degli ultimi quarant’anni, essendo stato fra l’altro consigliere di quattro presidenti e due volte segretario della Difesa. In quest’ultima veste Rumsfeld ha gestito la guerra in Afghanistan e in Iraq dopo l’11 settembre 2001. Nel film egli si presta con docilità pari al narcisismo a ricostruire le tappe della sua carriera in una lunga e prismatica ”confessione” che sembra sceneggiata da Machiavelli, Pirandello e… Andreotti.
Rumsfeld non rinnega alcunché, gigioneggia come faceva durante le conferenze stampa belliche alla Casa Bianca quando bacchettava o blandiva i giornalisti, e filosofeggia sul/col cinismo evidentemente essenziale nella gestione del potere. In particolare appare attratto dalle definizioni, dai giochi di parola al limite della sciarada, dal lessico noto e ignoto della politica e della storia. Morris pare assecondarlo, ma inframmezza le teorie e le memorie di Rumsfeld con immagini di repertorio su Saddam Hussein o sul carcere di Guantanamo che fanno da contrappeso critico alle sue parole, oltretutto elaborate in grafismi che le rendono astratte. Più volte, ripresi dall’alto, vediamo l’oceano e poi una palude: l’anelito espansivo e il torpido/torbido dell’identità americana che ancora in questi giorni convivono e si misurano sulla questione del possibile intervento militare in Siria.
(Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 5 settembre 2013)