Vincenzo Cerami (Roma, 2 novembre 1940 – 17 luglio 2013) viene giustamente ricordato dai più come l’autore di un folgorante romanzo d’esordio, Un borghese piccolo piccolo del 1976, che l’anno seguente divenne un film di Monicelli con Sordi, destinato a fare epoca. O come lo sceneggiatore di La vita è bella che fece volare Benigni fino agli Oscar. Ma l’ex allievo romano di Pasolini con cui debuttò sul set di Comizi d’amore, film-inchiesta del ’65 tuttora citatissimo sullo schermo fino in Turchia dove ha appena ispirato un reportage sull’eros e i tabù, ha scritto film impegnati con Bellocchio, Scola, Amelio (Colpire al cuore dell’83 resta il film italiano più acuto e sofferto sugli «anni di piombo»), ma anche commedie con Nuti, Antonio Albanese, Giovanni Veronesi.
Tra le sue numerose opere narrative, per ricordarlo ne scegliamo una degli ultimi anni. Non un libro sull’impossibilità di raccontare le storie, come sembrava suggeriva la formula «frammentaria», quanto piuttosto un libro sulla possibilità di raccontarne tante, di storie, al posto di una sola. E’ infatti una divorante passione per la vita – per le vite altrui e per quelle nostre che avrebbero potuto o potrebbero essere – ad innervare La sindrome di Tourette – Storie senza storia di Cerami (Garzanti ed., 2005).
Il titolo è mutuato da un raro disturbo neurologico cui si devono stranezze comportamentali e linguistiche, come irrefrenabili risate o sequele di parolacce nei momenti più inopportuni. Pare ne soffrisse Mozart, mentre è certo che a diagnosticarla e a battezzarla nel 1885 fu il medico francese Georges Gilles de la Tourette. Come molte sintomatologie ascrivibili alla sfera psicologica, essa è in sostanza una rivolta del corpo, è una rivelazione inconscia di quanto la coscienza non può o non vuole vedere/mostrare, è uno spasmo esistenziale in opposizione al mondo.
Cerami adotta la sindrome di Tourette come metafora di un presente non del tutto docile rispetto a se medesimo. Mutilati dei provvidi «no», ovvero della capacità di criticare la realtà, ci diamo in preda a sbalzi umorali o fantasie mostruose che tuttavia sono l’ultima frontiera della salute mentale. Il gioco, per quanto «nero» sia. La favola, per quanto crudele risulti. Il racconto, per quanto assurdo sembri. In una parola: la parola. Ecco le dimensioni salvifiche che lo scrittore romano cesella da par suo nei racconti del libro, con lo stesso afflato che animava la sceneggiatura di La vita è bella, in cui persino l’orrore di Auschwitz viene se non sconfitto, almeno sospeso dal potere magico dell’insensatezza ludica del protagonista che invita il figlioletto a considerare l’Olocausto alla stregua di un gioco a premi (chi più di quel Benigni è afflitto dalla torrentizia, multipla, caotica oralità studiata da Tourette?).
Cerami, insomma, pur disseminando le pagine dei suoi racconti degli sguardi sornioni dei gatti capitolini, non si era rassegnato al disincanto che ci domina. Nel libro attraversa la sua amatissima Roma con passo laconico, scettico, ironico, però mai cinico né disincantato, appunto, coltivando una lingua della realtà che coniuga felicemente attenzione e distrazione, memoria e oblio. La sua particolare propensione è rivolta verso ciò che in gergo cinematografico si definirebbe «immagine fuori fuoco», un provvisorio sdoppiamento dei contorni delle cose, i quali non è detto debbano tornare a combaciare, giacché nel difetto percettivo o disturbo visionario che dir si voglia si aprono possibilità di altre storie, di altre vite.
Così, nel racconto Grazie, Gesù, uno dei soldati romani intenti a inchiodare Cristo sulla croce, si persuade di un paradossale credo: quel «privilegio» di conficcar chiodi nella mano divina lo deve al fatto che suo padre, nella gelida notte dei natali del Bambinello, prestò il bue e l’asinello per riscaldarne la grotta. Epilogo grottesco, eppure cristiano come pochi, in debito indiretto, con La ricotta di Pasolini, cui Cerami – si è detto – doveva l’apprendistato artistico. E in Acid Lemon due insensate gomme da masticare sapide di vitamina C riescono addirittura a trasformare la città in una giungla, fecondando un alberello di Monteverde, quartiere che si presta agli incantesimi. Mentre nel Transatlantico, che si apre con una citazione-arruolamento nell’onirismo infantile di Aldo Palazzeschi, un giovanissimo cambusiere prende fuoco in navigazione e si ritrova a galleggiare tra la vita e la morte. Una condizione, questa, comune a personaggi di altri racconti, come la Matilde che ferma il tempo per dare un ultimo bacio prima di finire su una colonna in cronaca, fotografia di una vittima d’un incidente stradale.
A proposito di donne, nel libro ve ne sono di pronte a trasfigurarsi in lupi o in meduse, a tradire per una barzelletta, a parlare con gli extraterrestri, o ad accudire la testa senza corpo di un grave infermo, icone patologiche di uomini più gravi di loro. Gli uni e le altre, e il lettore, trovano in Cerami una complicità mimetica, compassionevole, fraterna per un repertorio delle ragioni e delle follie di tutti. Sullo sfondo di un libro fatto di incipit, la vitale sapienza del torto cui non ci rassegniamo: gli inizi finiscono presto.