In molti i casi gli epigoni degli autori classici accentuano i difetti del maestro, tanto che Marx, consapevole di ciò, ebbe a dire, come è noto, di non essere marxista. I discepoli, più o meno lontani e più o meno accreditati, irrigidiscono il pensiero dei padri, lo solidificano, lo fanno diventare dogma. E non esitano nemmeno, a volte, a porsi come fossero dei rappresentanti di una setta, ad assumere cioè uno stile teologico da missionari del vero. Questo accade sempre, ma forse soprattutto con gli autori che hanno già in sé tracce di ideologismo. Penso ad Hayek e agli hayekiani, una scuola che sembra a volte, forse spesso, non avere quei dubbi che contraddistinguono direi, non il liberale, ma l’uomo di cultura e la persona di buon senso (che non è sempre il senso comune) in quanto tale. Con loro, supponenti e intolleranti e sinceramente ignoranti, diventa impossibile anche solo discutere. Ora, con questo non voglio dire che Friedrich von Hayek non sia un autore importante e da considerare. O che la sua opera non sia piena di spunti interessanti, e persino geniali. Ma il suo è un modo molto lontano dal mio di concepire il liberalismo. Non perché sia di destra e liberista, piuttosto che di sinistra o socialista: distinzione che da un punto di vista teorico ha poco o punto valore. Ma per un motivo più profondo e consustanziale: nel suo liberalismo, o meglio nel suo universo mentale e morale, non pulsa la vita, non sembra di sentire quella vasta e varia cognizione di cose umane (in primo luogo la vita dei sentimenti e delle passioni) che è per me consustanziale ad una dottrina politica che vuole porsi come una concezione della vita e della realtà. La sua idea di individuo, su cui sembrerebbe fondare il suo edificio, è, in tal senso, molto povera e asfittica, incapace di vedere i rapporti dialettici che legano l’uomo al suo ambiente, storico e geografico. E’ un autore fuori tempo, a mio avviso: un reazionario nel senso etimologico del termine, ma non un reazionario all’altezza di un de Maistre o simili, cioè originale e profondo. La sua dottrina come pure le sue idee politiche sono databili alla prima modernità, si sgretolano alla luce degli sviluppi postkantiani del filosofare (il cosiddetto “individualismo metodologico” è smontabile con facilità). L’idea della spontaneità e dell’ordine non programmato è una bella idea, ma andrebbe usata con accortezza e flessibilità: gli esiti inintenzionali delle azioni possono essere positivi, ma a volte anche negativi, non sono appunto garantiti.Il liberale di norma preferisce non intervenire, ovviamente, nel corpo sociale, ma perché è consapevole della complessità conflittuale dell’interazione umana, non perché sia un provvidenzialista. Conflittualità che non vuole conciliare, né ha pretesa sia una “armonia prestabilita”. Vuole anzi viverla fino in fondo. Intensificando le forze del politico, non immunizzandosi da esse. Come avviene in tutte le concezioni che si fondano sulla depoliticizzazione, che sia di natura economicistica o giuridica poco importa, quella di Hayek è una concezione povera dal punto di vista umano. E diventa appunto arida in alcuni hayekiani. Qualcosa del genere, certo, avviene anche nel campo “avverso” di Rawls e dei rawlsiani, volti alla escogitazione di astratti e metafisici (cioè senza senso storico)” principi di giustizia”. La questione è che è di più, non di meno politica, che il liberalismo, e direi l’uomo, ha bisogno. E a costo di ripetermi, se qualcuno mi chiede di fare un nome di un classico del liberalismo del secondo dopoguerra non è né a Hayek né a Rawls che penso, ma all’ironico gentlemen inglese di origine lettone Isaiah Berlin.