Nel post precedente avevo lasciato in sospeso una questione: la spiegazione di perché una prospettiva di “realismo ingenuo”, che cioè non tenga conto della “svolta trascendentale” della filosofia occidentale (da Kant a Gentile per intenderci), non possa, a mio avviso, dirsi propriamente filosofica. Credo che, per approssimarci ora alla risposta, si possa far riferimento ad un articolo di Franca D’Agostini, comparso su “La stampa” qualche giorno fa (per la precisione mercoledì 12 settembre 2012), il cui titolo è di per sé esplicativo: Gli analitici lo fanno meglio. Ad un certo punto l’autrice, dopo avere addirittura affermato che la filosofia analitica è generalmente “più seria” di altri tipi di filosofia, scrive, riprendendo Michael Dummett, che “un filosofo analitico si riconosce per due requisiti: l’uso, in modo più o meno ortodosso, dell’apparato basilare della logica moderna, fissato da Frege, e l’idea che la filosofia sia una seria impresa di soluzione di problemi”.
Ecco, come, in poche righe, la D’Agostini mostra: 1) di non aver capito la specificità del metodo filosofico, che non può essere assolutamente confuso con quello scientifico; 2) di avere una visione totalizzante e illiberale della verità, e quindi limitata della realtà; 3) di confondere la serietà e il rigore con un atteggiamento. Al contrario, un filosofo analitico, a mio avviso, non è, generalmente parlando, un filosofo (sarebbe più corretto parlarne come di uno scienziato, il che non è affatto disonorevole) proprio perché usa (solo) la logica formale; e proprio perché crede che il problema filosofico sia come un problema matematico o enigmistico: da risolvere, arrovellandosi su di esso, fino a quando non si trova la chiave o la soluzione.
Io credo invece che un filosofo si caratterizzi soprattutto per due elementi: non dare nulla per acquisito, non avere quindi pre-giudizi, e lasciarsi guidare dalle “cose stesse”; 2) l’uso di una logica dialettica e comprensiva (“la verità è l’intero”) e non astratta e intellettualistica (che cioè consideri la realtà come una massa irrelata di oggetti o fatti). Dal primo punto di vista, occorre dire che, essendo appunto l’unica disciplina im-presupposta, cioè senza presupposti, la filosofia non può, preliminarmente, nemmeno non mettere in questione il “presupposto oggettivante”, cioè l’esistenza di realtà e pensiero come realtà separate; cosa che, appunto, una prospettiva analitica dà per scontato anche quando sembrerebbe non farlo (perché ragiona appunto all’interno di un orizzonte di senso “oggettivante”). Dal secondo punto di vista, invece, bisogna precisare che qui si fa un discorso di metodo e non di oggetti: la filosofia spesso usa il metodo astraente che colleghiamo mentalmente con le scienze e che propriamente è il metodo newtoniano su cui sé fondata la scienza moderna; e, viceversa, con molta probabilità, anche le scienze fanno uso, a volte forse in modo preponderante, di procedimenti filosofici (anzi, forse, parlando da non esperto, discipline come la geometria non euclidea o idee come il “principio di indeterminazione” di Heisenberg o la teoria dei quanti sono a tutti gli effetti filosofia non usando più il metodo newtoniano su cui si fondavano le scienze moderne).
Quanto infine al rigore, vorrei ricordare alla D’Agostini il caso di Husserl, che all’inizio del suo percorso di pensiero aveva idee non troppo dissimili dalle sue e poi arrivò a conclusioni opposte, fino a giungere alla nota affermazione del 1935: “La filosofia come scienza, come scienza rigorosa, anzi apodittica – il sogno è finito”. Con essa, il filosofo tedesco non diventava di colpo “poco serio”, ma sceglieva la via di una diversa e più profonda (cioè filosofica) serietà. In conclusione, riecheggiando il titolo dell’articolo della D’Agostini, mi concedo una boutade. Gli analitici non lo fanno affatto meglio. Anzi, affrontando la realtà della vita e del pensiero con un atteggiamento presupposto e non con naturalezza, alla fine riescono meccanici, frigidi e poco umani e sentimentali.
Ciò che trovo poco serio è che si faccia uso di artifici retorici di stampo populista (“gli analitici lo fanno meglio”: parafrasi e traduzione della frase “italians do it better” apparsa sulla nota t-shirt di Madonna, riferimento alla sfera sessuale che nulla a che vedere con la discussione, slogan da tifoseria calcistica, oserei dire) proprio da parte di chi si erge a paladino dell’importanza della chiarezza e della correttezza formale, soprattutto nel dibattito pubblico. Un simile atteggiamento è riscontrabile anche nell’articolo “Vattimo e Lady Gaga, ma cosa vi ha fatto di male la metafisica?”, della stessa autrice, apparso su La Stampa del 26-02-2012. Dove si vuole arrivare accostando il nome del filosofo a quello di una pop star in base a una frase pronunciata da quest’ultima e interpretata -non si capisce su quali basi- dalla professoressa D’Agostini? Forse a paragonarne il livello intellettuale e culturale? Mi piacerebbe sapere, dagli esperti del settore, come sarebbe giudicato un simile atteggiamento secondo l’etica della teoria argomentativa. Ai miei profani occhi continentali appare perlomeno contraddittorio.
Caro professor Ocone, ho letto i suoi articoli recenti, e spesso sono d’accordo con lei. Non è ovviamente qui la sede per una discussione “seria” sulla questione del metodo filosofico (e sulle altre questioni a cui accenna: realismo-verità), spero di avere occasione di parlarne con lei con calma. Mi limito solo a precisare due punti.
1) Il mio riferimento alla “serietà” era solo riferibile alle ragioni soggettive che hanno spinto alcuni europei formatisi alla scuola della filosofia classica tedesca e/o della filosofia neostrutturalista francese a occuparsi di filosofia analitica: in effetti i due problemi che ho segnalato (vaghezza e narcisismo sofistico di molta filosofia di stile francese negli aa 80; estraneità della filosofia “tedesca” all’applicazione in filosofia della logica moderna)non credo siano da sottovalutare, per valutare l’efficacia e l’onestà di un lavoro filosofico. Ma certamente mi sono spiegata male, e me ne dispiace: sui giornali si dicono a volte cose esagerate, e pertanto sbagliate.
2) L’attenzione alla “svolta” rappresentata dalla logica moderna in filosofia a mio avviso dovrebbe essere pari a quella riservata alla “svolta trascendentale”. Lei non conosce bene forse le cose che scrivo, ma devo confessarle che personalmente sono un’ostinata lettrice e anche in certo modo seguace tanto di Kant quanto di Hegel (tra i quali non vedo alcuna incompatibilità), e sono d’accordo con lei sull’importanza della svolta di cui sopra. Ma lei, invece, è sicuro di sapere che cosa intendo quando dico che per il “metodo filosofico” la logica così come si è formata a partire da Frege è di essenziale importanza? E’ sicuro, in altri termini, che sia proprio e solo io a “non capire la specificità del metodo filosofico”? Un cordiale saluto Franca D’Agostini
Gentile Professoressa D’Agostini,
la ringrazio molto della risposta e anche della cortesia e pacatezza del tono. Ovviamente né un articolo di giornale né un post sul blog permettono di discutere in profondità questioni essenziali come queste. Io credo, generalizzando, che occorra evitare in filosofia (sottolineo “in filosofia”) due estremi: da una parte, “la vaghezza e narcisismo sofistico di molta filosofia di stile francese” (e non solo francese), come lei dice; dall’altra, il razionalismo astratto e la logica intellettualistica o formale fondata solo sul principio di non contraddizione di cui, a ragione, fanno uso le scienze moderne di ispirazione meccanicistica e newtoniana. Le mie sono distinzioni ideali, che il filosofo (non lo storico della filosofia) è tenuto a fare. Poi c’è la realtà empirica, e quella del pensiero dei singoli autori. E tutto, sono d’accordo con lei, diventa più complicato, sfaccettato. Il problema, a mio avviso, non è però quello di prendere sul serio Kant o Hegel: ci mancherebbe altro! E’ quello invece di prendere sul serio, con tutta la sua prorompente forza teoretica e speculativa, l’elaborazione del “trascendentalismo formale” così come magistralmente espressa da Kant nella pagina sull’Io penso a Appercezione trascendentale. Quello del trascendentalismo così inteso è un filone di pensiero che parte addirittura da Agostino (quando descrive l’autocoscienza). E giunge al suo apice (per radicalità e consequenzialità logica) in Gentile (su questo ha ragione da vendere Emanuele Severino). Quanto più specificatamente a Kant, l’dea che io mi sono fatta è che il suo pensiero sia all’origine di due importanti opere di pensiero del Novecento, distanti fra di loro mille miglia ma che, proprio per questo, possono forse far capire come l’autore della Critica possa essere interpretato sia nel senso filosofico del trascendentalismo formale sia in quello scientifico del trascendentalismo materiale o empirico. Mi riferisco al pensiero di Heidegger e a quello di Rawls. Entrambi hanno un fondamento e una base kantiani, ma solo Heidegger, proponendosi (in Essere e tempo) di trovare gli esistenziali, cioè le forme a priori universali e necessarie, dell’esistenza, può dirsi in senso proprio filosofo. Rawls sviluppa invece magistralmente la parte empirica del kantismo (non dimentichiamoci che uno dei propositi del pensatore di Koenigsberg era proprio quello di “giustificare” e dare legittimità teorica alla fisica newtoniana). Considerato che per me il metodo scientifico e quello filosofico sono diversi ma hanno pari dignità, che problema c’è a dire che Rawls (così come buona parte dei filosofi analitici) sono scienziati empirici della politica e non filosofi in senso stretto? Con cordialità, Corrado Ocone
Caro professore, grazie della risposta, davvero gentile, considerato che si rivolge a qualcuno che lei giudica “limitato intellettualmente oltre che saccente”, come dice il suo tweet sul mio articolo. Mi dispiace che questa sia la sua opinione, ma non importa: non è fondamentale che lei riveda le sue idee su di me. Invece: d’accordo sul fatto che stiamo parlando di distinzioni idealtipiche; d’accordissimo su Heidegger e Rawls continuatori di Kant; d’accordissimo sul fatto che il punto non è “prendere sul serio” Kant e Hegel, ma capire e usare il metodo trascendentale. Vorrei però insistere: nello stesso modo non si tratta di sposare astrattamente “la logica intellettualistica o formale fondata solo sul principio di contraddizione”, bensì capire e utilizzare in filosofia le risorse del metodo lanciato da Frege e Russell (che ovviamente non si riducono all’intellettualistica difesa del principio di contraddizione).
NB 1) non tutti i filosofi che si dicono “analitici” oggi usano e apprezzano la “logica” in generale e il metodo di cui sopra; 2) il “metodo scientifico” in senso lato è uguale al metodo filosofico: è il metodo (più o meno fissato e fissabile) della ricerca di una conoscenza quanto più è possibile vera e oggettiva; in senso stretto, non esiste più all’incirca dagli anni ’30 dello scorso secolo. Un cordiale saluto Franca
Cara Professoressa, i tweet sono per natura soggetti alle passioni del momento. E devono esseere efficaci. Il mio “intellettualmente limitato” era sbagliato: faccio autocritica (l’accusa di “saccenteria” non è mia come sa). Io credo che i metodi della conoscenza siano due, ma non siano relativi a particolari discipline: c’è un metodo astraente e empirico-generalizzante, fondamentale e volto alla prassi; ed uno, propriamente teoretico, sintetico e a priori (l’universale concreto di cui parla Hegel). Per il resto sono d’accordo con lei e mi auguro di poter continuare in altra e diversa sede la per me stimolante discussione. Con cordialità, Corrado Ocone
Con buona pace del povero Popper…
A. Lorenzi
Ricerc.Neuroscienze
Se ho capito bene la sentenza della prof.
Franca, il metodo scientifico non esiste più dalla metà degli anni ’30. Eppure i filosofi della scienza ci hanno parlato molto a tal proposito, e se è vero che esistono alcune posizioni diciamo di tipo “pop”, resta il fatto che chi si occupa di scienze empiriche, ha a che fare con dati numerici, a volte miliardi di dati, che si capisce bene, non si possono rapportare a una uniformità se non applicando un principio rigoroso.
Resta da considerare poi, che se il fenomeno esiste e lo abbiamo descritto e ben enucleato, si deve poter ripercorrere lo stesso tragitto e trovare gli stessi risultati. Da ultimo, questi risultati devono essere corrispondenti al segmento della realtà che stiamo indagando (il pianeta ci deve essere davvero, oppure la proteina in forma allosterica cercata, deve essere possibile poterla sintetizzare e verificare sul terreno).
Insomma, si capisce che quando dalla filosofia si passa al piano delle scienze, le faccende diventano subito estremamente più semplici nella loro teoria e pratica, per quanto sia a volte estremamente difficile poter approntare gli strumenti per tali attività.
In questo senso, Popper ci diceva che la psicoanalisi è un sistema logico, rigoroso ma non scientifico, proprio perché le formulazioni non sono falsificabili non in pratica, ma in partenza. Pertanto un sistema di indagine, deve basarsi su un costrutto per quanto complesso ma in grado di lasciar liberi di trovare almeno una sola condizione che al suo verificarsi lo faccia cadere per intero.
Rawls; l’ho letto molto e con estremo piacere, ma devo dire che per le tematiche su cui edifica il suo discorso, non lo considero un filosofo a tutto tondo, quanto un egregio produttore di pensiero estremamente robusto, ma applicato alla materia politica e sociale. La sua Legge, nota come “del secchio bucato”, ha costituito un must applicato e recepito in ambito politico, ma non ha molto a che fare con le teorizzazioni tipiche del discorso filosofico. Popper, che di filosofia politica si è assai occupato, non avrebbe mai tirato fuori un tema così specifico come quello trattato da Rawls.
Per questo, Concordo che Rawls non faccia parte del discorso filosofico in senso stretto, a differenza di Heidegger e di Popper.
A proposito, ricordo sempre l’articolo sulla Tv, tradotto da Reset, molti anni fa: la sua collocazione fu da tutti noi letta in chiave anti Berlusca, quando Popper forse, manco sapeva chi era il Cav. Questo rende Popper un filosofo, proprio perché non deve affrontare aspetti tecnici e pratici, ma ragionare su un sistema supposto preesistente, e comunque totalmente sganciato dal contingente.
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