Editoriale da santalessandro.org
Settimanale on line della Diocesi di Bergamo
Sabato 11 dicembre 2021
Giovanni Cominelli
Fine gennaio 2022: il Parlamento alla sbarra
La produzione è in ripresa, le persone hanno ripreso a muoversi e a socializzare, il Covid ha rallentato la marcia, ma non demorde, i soldi del PNRR in arrivo… Insomma: alla fine, “la barca va!”. Intanto, per una decina di mesi gli Italiani hanno potuto fare esperienza di un governo che governa, che dice l’essenziale e lo realizza. Non promette la luna, solo poche cose terra terra, delle quali il Paese ha bisogno. Non succedeva dall’epoca dei governi Conte. Secondo qualche coscienza perennemente “infelice”, tutto ciò sarebbe un effetto della non- politica, perché la politica in Italia e persino a livello globale sarebbe sospesa, in forza di uno “stato di eccezione”.
Ora, è vero che la politica appare sospesa, imbambolata, paralizzata. Ma non perché sia finita sotto il controllo di potenze oscure, incapace del “Katekon”, tanto amato da Cacciari. E’ auto-ingarbugliata. Lo scheletro del sistema dei partiti è tuttora solidissimo, in quanto è un pezzo dello Stato politico, ma la carne, i nervi, i muscoli, il cervello, che hanno a che fare con la società civile, sono estenuati. Che questa “apocalissi-rivelazione” stia per squadernarsi al cospetto degli Italiani sta scritto nel calendario degli ultimi giorni del gennaio 2022, allorché si dovrà eleggere il Presidente della Repubblica. Perché i partiti stanno andando incontro a quei giorni come sonnambuli che camminano sull’orlo di un tetto o di un abisso.
Abisso, vuol dire il ritorno al “prima- di -Draghi”, cioè all’instabilità, alle chiacchiere, alle batracomiomachie, con il Paese ancora sotto la sferza del Covid, con un PNRR generoso nel dare oggi, ma esigente nel richiedere domani. Dopo aver fatto un passo avanti, il Paese rischia due passi indietro. Alla maggioranza dei cittadini tutto ciò è chiaro. E perciò si aspettano una soluzione semplice: che Mattarella e Draghi continuino il proprio lavoro fino alle elezioni del 2023 e anche dopo. Il “Risorgimento” del Paese ha bisogno di anni. Il debito pubblico é arrivato al 155,8% del PIL nel 2020, è sceso di un punto nel 2021, si prevede che arrivi al 146,5% nel 2026, ma resta un peso enorme sulle spalle di una generazione giovane sempre più scarsa di numero. Un sistema partitico che sapesse guardare dentro il sistema socio-economico, così da rappresentarlo pienamente, avrebbe già preso la decisione più semplice: squadra che vince non si cambia. Invece, da qualche mese i partiti tessono instancabilmente ogni giorno nuovi scenari così come il baco da seta tesse ottusamente il proprio filo di bava attorno a se stesso, fino a rimanere prigioniero del proprio bozzolo. Un sistema dei partiti, che sapesse interpretare il proprio ruolo di mediazione tra la società civile e lo Stato, avrebbe approfittato di questo tempo all’ombra di Draghi per riprogettare il sistema istituzionale di governo del Paese. Non lo ha fatto. Con un’eccezione: Giorgia Meloni. Fin dal marzo 2020 FdI ha presentato un PdL costituzionale, in cui si propone il presidenzialismo alla francese. In questi giorni vi ha aderito Silvio Berlusconi, alla ricerca spasmodica di consensi in vista di una sua ascesa al Quirinale.
Stupisce che le forze di sinistra, il PD in primo luogo, non abbiano preso sul serio il PdL e si siano, viceversa, dilettati con la diminuzione del numero di deputati e senatori e, più recentemente, se ne siano usciti con il topolino dell’abolizione del semestre bianco.
Eppure la proposta del presidenzialismo era uscita condivisa dalla Commissione bicamerale del 1997-98, presieduta da Massimo D’Alema. Non passò, perché Silvio Berlusconi temette che, approvandola, avrebbe garantito a Prodi cinque anni, forse dieci, di presidenza. E’ la stessa logica che muove oggi il PD? Teme che, approvando il presidenzialismo, Meloni o Salvini o Berlusconi potrebbero essere eletti direttamente dai cittadini e stare al potere per dieci anni? E allora!?
Può darsi benissimo che il calcolo di partito di vincere la corsa del presidenzialismo sia la motivazione nascosta della proposta di Giorgia Meloni e dell’adesione di Berlusconi e di quella già a suo tempo annunciata in TV da Salvini – presidenzialismo+federalismo. Puo’ darsi… Ma ciò non basta a fornire una giustificazione per l’indifferenza della sinistra alla proposta presidenzialistica, a meno che anch’essa sia prigioniera della medesima logica simmetricamente opposta: la paura che la partita presidenziale sia vinta dalla destra.
Questa piattaforma di riforma istituzionale – presidenzialismo+federalismo – potrebbe, invece, essere il terreno di unità nazionale dei partiti per l’anno a venire: rieleggere Mattarella, sostenere Draghi e procedere ad una Commissione bicamerale 2.0, che, invece di occuparsi di “quisquiglie e pinzillacchere”, riprendesse il percorso della prima Commissione bicamerale e lo concludesse nel giro di pochi mesi. Basterebbe riprendere a approvare i verbali della vecchia Commissione. Aiutano tre condizioni nuove: la diminuzione dei parlamentari, con la necessità conseguente di unificare Camera e Senato in un’unica Assemblea della Repubblica; la caduta verticale di legittimazione del sistema delle venti Regioni, al cospetto del Covid; l’esistenza di quattro partiti, il cui consenso oscilla tra il 15% e il 20%.
Gli ultimi giorni di Gennaio si presentano come un passaggio storico per il Paese, analogo a quello del 1991-93.
Giova qui riprendere il lucido discorso che Giuliano Amato tenne ad una Camera sorda e inebetita mercoledì 21 aprile 1993, dopo il voto referendario del 18-19 aprile 1993: “In gioco erano le regole per la formazione della rappresentanza parlamentare e, di riflesso, dello stesso Governo. In gioco era il ruolo dei partiti e con esso le forme ed i modi organizzativi della politica. In gioco era l’assetto di importanti funzioni pubbliche, fra Stato e regioni, fra Stato e mercato. L’indicazione è stata chiara. Si vuole cambiare e si indica la strada del cambiamento, che è certamente politico, ma è innanzitutto istituzionale, è di riforme a profonda valenza istituzionale. Si vuole un nuovo Parlamento, ma lo si vuole in primo luogo diversamente eletto. Su questo la scelta degli elettori sovrasta oggi, legalmente per il Senato, politicamente anche per la Camera, le nostre preferenze e le nostre propensioni. Si vogliono inoltre partiti diversi, che dovranno essere tali, perché destinati al vaglio di nuovi sistemi elettorali e perché non dovranno più attingere a capitoli del bilancio statale. Cerchiamo di esserne consapevoli: l’abolizione del finanziamento statale non è fine a se stessa, esprime qualcosa di più, il ripudio del partito parificato agli organi pubblici e collocato fra di essi. È perciò un autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settant’anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale. Se è così, questo Parlamento si trova in una singolare condizione, solo apparentemente contraddittoria: quella di veder superate le regole da cui è nato, quella di essere investito dagli elettori dell’irrinunciabile compito di modificare tali regole e di preparare e organizzare così il cambiamento richiesto”.
Questa investitura riguarda anche l’attuale Parlamento. Sono passati quasi trent’anni, a quella sfida i partiti non hanno ancora risposto. L’unica risposta è stata quella del populismo dei cittadini dei cittadini delusi. Ma fino a quando la democrazia italiana resisterà all’onda della delusione e dell’astensionismo crescente?