Che fare di fronte alla spaventosa e interminabile guerra civile in Siria? Quale soluzione in Iraq per restituire al paese stabilità e sicurezza?
L’impressione dominante è di una profonda incertezza strategica dei principali attori internazionali di fronte al tema cruciale dei futuri assetti territoriali. Mentre appare ormai evidente come il problema di fondo, in gran parte del Medio Oriente, sia la mai risolta questione della convivenza tra etnie e religioni diverse all’interno delle artificiali configurazioni statali create dopo la fine della prima guerra mondiale, negli anni venti, dalle potenze coloniali di allora, quando diverse provincie dell’impero ottomano furono accorpate dai vincitori dando vita a nuovi Stati pensati soltanto al fine di mantenere il controllo della regione e delle sue risorse.
Francesi e inglesi si divisero il Medio Oriente secondo un progetto coloniale che come lucidamente spiegò anni fa lo storico americano David Fromkin, nel suo A peace to end all peace (un libro più che mai attuale) sta alla radice dei problemi di oggi. Quel progetto portò alla creazione di un gruppo di paesi (tra i quali il Libano, la Siria, l’Iraq, la Giordania) privi di storia e collante nazionale, configurazioni etniche – religiose tenute insieme con la forza da regimi autoritari privi di legittimità storica, funzionali agli interessi e alle ambizioni delle potenze europee e destinati di conseguenza a una perenne conflittualità interna. In Siria sunniti e curdi, che in precedenza vivevano in provincie separate dell’impero ottomano, furono sottomessi dai francesi alla minoranza alauita; in Iraq sciiti e curdi, che erano vissuti in provincie separate dell’impero ottomano, furono a loro volta costretti a vivere insieme sotto un regime autoritario affidato dagli inglesi alla minoranza sunnita. La crisi di questi assetti, la cui imposizione provocò sin dall’inizio conflitti durissimi (si pensi alla sanguinosa rivolta sciita contro gli inglesi in Iraq negli anni venti), rappresenta la causa di fondo dell’attuale catastrofe.
Il fenomeno ISIS, che non è solo follia terrorista, si spiega in questo contesto. Il suo obiettivo principale è un nuovo Stato sunnita che unifichi popolazioni appartenenti agli stessi gruppi tribali, tenuti artificialmente divisi da confini inventati e quindi non accettati dagli abitanti. Il che spiega, tra l’altro, la “tenuta” di questo Stato sui generis, nato dalla disintegrazione dell’Iraq di Saddam Hussein provocata dal disegno dei neo-conservatori americani, e dalla rivolta della maggioranza sunnita contro il regime dispotico di Assad.
Occorre dunque una pace che non ponga fine ad ogni pace, come quella che fu imposta sulle rovine dell’impero ottomano, ma garantisca al contrario una pace durevole. E allora ecco la domanda: è immaginabile, dopo anni di immani sofferenze umane e materiali, che sunniti, sciiti, curdi e altre minoranze tornino a convivere pacificamente all’interno dei confini ufficiali siriani e iracheni oggi contestati da più parti? La risposta, se s’intende guardare in faccia alla realtà e non perseguire fantomatici miraggi politici, è NO. La Siria e l’Iraq che abbiamo conosciuto non esistono più.
Ora si tratta di fare tesoro degli errori commessi in passato dall’Occidente al fine di offrire, non imporre, soluzioni coerenti e di lunga durata. Dunque non ripristino delle vecchie frontiere ma ridefinizione dei confini del Medio Oriente. Il che richiederebbe in primo luogo un impegno diretto dell’ONU, quindi un accordo delle grandi potenze, Usa e Russia in particolare, e di altre organizzazioni internazionali come l’Unione Europea. Un ruolo senza il quale non è pensabile un processo di pace duraturo. E che per ora, purtroppo, non s’intravede nell’orizzonte della diplomazia internazionale.
Marco Calamai coglie una questione centrale alla crisi in corso, la questione dei confini. Ma temo anch’io che una ricomposizione dello spazio ex ottomano secondo criteri etnici comporti tragedie perfino peggiori di quelle in corso. Ho trattato l’argomento in un’inchiesta in tre puntate uscita sul Fatto in gennaio, qui mi limito ad aggiungere alle perplessità di Roberto Toscano alcune brevi considerazioni riferite ad una singola situazione: l’Iraq.
Marco conosce bene la situazione irachena e dunque ricorderà cosa accadde nei due anni in cui milizie sciite e milizie sunnite si combatterono per decidere i confini etnici nell’iraq centrale: cinquantamila morti, spesso uccisi in posti di blocco improvvisati dove vivere o morire dipendeva dal tuo nome, se sciita sunnita. Le zone ancora miste in Iraq non sono minuscole, e molti degli espulsi non si sono affatto rassegnati a vivere lontano dai luoghi da cui sono stati cacciati. Dunque la spartizione del territorio secondo il criterio dell’etnia maggioritaria è l’anticamera di nuove pulizie etniche, realizzate more solito: mediante massacri. Inoltre le etnie ‘minori’, che godevano di sufficienti protezioni sotto la Sublime Porta e di precarie tutele sotto i regimi arabi, all’interno di nuovi Stati-nazione a forte caratterizzazione etnica risulterebbero grossomodo incongrue e perderebbero perfino i residui diritti garantiti dalle dittature arabe. Penso, per esempio, ai cristiani assiri o agli yazidi. Infine, come dimostrò novantacinque anni fa il trattato di Sevres i confini inventati dalle conferenze di pace sono sempre esposte alla revisione delle armi. E per tutto questo la soluzione proposta da Marco Calamai è assai rischiosa. Ma è certo vero che essa non sembra avere, allo stato, alternative convincenti. Per trovarle probabilmente occorrerebbe una capacità di immaginazione che non pare nelle corde degli attori coinvolti.
Torno sui temi trattati nei precedenti commenti. E’ vero: la costituzione di Stati “etnici” produrrebbe altre mattanze, altre tragedie. E allora che fare? La soluzione sarebbe quella di costringere gli abitanti di Siria e di Iraq alla coabitazione negli attuali confini. Ma come? Vista l’impossibilità, in questa fase storica, di una convivenza all’interno di Stati democratici di tipo “liberale” vedo solo due possibilità:
1. Regimi autoritari, dominati dal gruppo etnico-religioso più numeroso
(formula irachena attuale). In Siria sarebbe un regime a maggioranza sunnita. In Iraq a maggioranza sciita.
Ipotesi realistica? L’esperienza irachena post 2003 dimostrerebbe che tale formula è saltata per via del conflitto regionale tra sunniti e sciiti.
2. Un accordo che garantisca a tutti i gruppi una quota di potere nello Stato. E’ il modello libanese che, pur tra alti e bassi, sta dimostrando di funzionare garantendo la convivenza tra ben diciotto gruppi religiosi.
Personalmente credo che il modello libanese, che pure si è imposto dopo circa quindici anni di guerra civile, sarebbe la soluzione più avanzata, nella difficile realtà del Medio Oriente, in alternativa alla rottura degli attuali Stati. In ogni caso tale formula richiederebbe un accordo regionale tra sunniti e sciiti e quindi un sostegno attivo dell’Iran e dell’Arabia saudita. Se tale accordo non ci sarà lo sbocco dell’attuale crisi sarà molto probabilmente la frantumazione degli attuali Stati e, forse, la loro ricomposizione.
Naturalmente la storia è sempre piena di sorprese, specie in Medio Oriente.
L’intervento di Roberto Toscano pone questioni e interrogativi che richiedono certamente risposte chiare ( cosa quasi impossibile quando si parla di Medio Oriente).
Dico subito che anche io sono contrario alla FRAMMENTAZIONE degli attuali Stati della regione. Su questo punto mi rendo conto che non mi sono spiegato bene nel mio intervento. Penso invece alla necessità storica di una RICOMPOSIZIONE che superi le divisioni che, ripeto, furono imposte da francesi e britannici al Medio Oriente dopo la prima guerra mondiale. Ricordo, a questo proposito, che Siria, Libano, Giordania, Iraq non esistevano nella divisione amministrativa dell’impero ottomano. Ma il fatto è che non esistevano neanche nella mente dei leader della rivolta araba contro l’impero ottomano (gli amici di Lawrence e di Gertrude Bell) i quali, al contrario pensavano alla CREAZIONE di un grande e unitario Stato arabo.
L’attuale frammentazione, dunque, è figlia dell’occidente e in particolare delle potenze coloniali europee. Rileggendo le complesse vicende della diplomazia internazionale di quel periodo si scopre sia la frustrazione araba di fronte alle promesse tradite ma anche altri episodi come l’impegno prima preso ma poi ritirato di dare vita, finalmente, ad uno Stato curdo. Tema quanto mai attuale e che richiederebbe uno sforzo straordinario delle grandi potenze interessate alla pace e alla stabilità in Medio Oriente. Il problema, d’altronde, si pone anche per i sunniti arabi iracheni e siriani. Diversi autori, tra i quali il professore iraniano Vali Nasr (The scia revival), hanno evidenziato i profondi legami culturali che uniscono gli abitanti di una città irachena come Falluja a quelli di altre città giordane e arabo saudite. Il fatto che sia stato l’ISIS a tentare la creazione di uno Stato che includa vasti territori degli attuali Iraq e Siria non dovrebbe impedire una riflessione serena sulle divisioni statuali che attualmente separano popolazioni sunnite le quali parlano la stessa lingua, praticano la stessa religione.
Il problema della SEPARAZIONE si pone invece per le comunità sunnite e quelle sciite, divise da un conflitto antico e per ora insanabile. Dico subito che tale separazione sarebbe, anche per me, il segnale di una gravissima involuzione della situazione mediorientale. Ma tale involuzione non è già, terribile e sconcertante, di fronte ai nostri occhi? Mi chiedo, allora, che senso abbia il mantenimento con la forza di regimi che sembrano saper funzionare (si fa per dire) soltanto con la violenza di una componente sull’altra (come dimostrano decenni di storia irachena e siriana).
Vorrei inoltre chiarire che non sto pensando alla costituzione di “staterelli etnico mafiosi”. La mia esperienza in Kossovo mi ha vaccinato in questo senso. Penso invece che il conflitto in Siria e in Iraq richieda scelte strategiche di ampio respiro, non ultima quella di imporre, se non ci saranno alternative, soluzioni territoriali finalizzate alla pacifica coesistenza tra sunniti e sciiti.
MARCO CALAMAI
Rispondo all’interessante intervento di Marco Calamai, e alla sua proposta di una ridefinizione dei confini del Medio Oriente.
Dico subito che non sono d’accordo, e spiego sinteticamente perchè:
1. Che senso ha parlare di stati “artificiali”? Lo stato-nazione è sempre un costrutto poliitico, e non un’entità naturale;
2. Come si può pensare di costruire frontiere “naturali” in una regione che, come il Medio Oriente, è stata caratterizzata per secoli dalla mescolanza di etnie e religioni? Nessuna delle nuove entità statuali potrebbe risultare omogenea, e questo riaprirebbe, anzi moltiplicherebbe, il problema dei rapporti maggioranze/minoranze, con il rischio di scatenare fenomeni di pulizia etnica se non genocidio;
3. Che fare poi delle capitali degli stati esistenti? Quale stato post-iracheno si terrebbe Baghdad?
4. Come si fa ad immaginare che frammenti di stati che oggi sono afflitti da fortissimo problemi economici possano risultare sostenibili invece di restare indefinitamente a carico della comunità internazionale, oltre a cadere in preda della criminalità organizzata? (Lucio Caraccio ha parlato di “staterelli etnico-mafiosi”).
Capisco e condivido lo sconcerto, per non dire la disperazione, di fronte alla situazione attuale, ma l’idea che una frammentazione territoriale possa ssere la soluzione alla presente crisi non mi sembra ne’ realistica ne’ responsabile.
Roberto Toscano