LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Friedkin e Berlinguer, voci politiche in Mostra

“Venezia, dì qualcosa di sinistra”. Detto, fatto. La politica a volte fa capolino là dove meno te l’aspetti, per esempio nelle dichiarazioni di William Friedkin. Il regista americano di film memorabili come L’Esorcista o Il braccio violento della legge, che in Italia nei primi anni Settanta fu considerato “fascista”, è stato premiato a Venezia con il Leone d’oro alla carriera e la proiezione della copia restaurata del suo Il salario della paura (1977). Di ottimo umore, forse anche per consacrazione giunta nel giorno del settantottesimo compleanno, Friedkin ha esordito con un ironico saluto: “Buonasera, sono George Clooney”. Poi, una lunga carrellata di argomenti e storie, fra cinema e politica, fra passato e futuro, dal piglio arguto e molto diretto, come da noi non si usa che di rado.

Eccolo in pillole, il vecchio leone Friedkin. Sulla Siria e il possibile intervento americano: “L’America non può continuare a pensare di essere il poliziotto del mondo. Intanto l’Iran minaccia Israele e così via. Non eravamo a questi livelli dalla fine della seconda guerra mondiale, ma oggi esiste la bomba atomica e il mondo è davvero sull’orlo dell’estinzione. Speriamo solo che non vi sia un pazzo deciso a usare le armi nucleari”. Sul cinema: “Come diceva Brecht, l’arte non è uno specchio, ma un martello con cui trasformare la società. Questo è il ruolo del cinema. I ragazzi non hanno che da farlo, se vogliono, e, grazie alle telecamerine digitali e ai computer, non c’è più bisogno di tanti soldi come ai miei tempi”. Sugli studios hollywoodiani che secondo Spielberg starebbero implodendo: “Perché mai dovremmo preoccuparcene? Implode il mondo intero. L’industria degli studios sta già pensando da sola a salvarsi. Hollywood è diventata un casinò – e non ho detto ‘casino’ di prostituzione – muovono fiches, potrebbero fare milioni di film con quello che spendono per uno solo. Producono solo storie di gente che vola con tute di spandex o di vampiri e a me non interessa fare quei film”.

Soluzioni e proposte? “Non c’è alcun Superman o Batman  in grado di salvare il mondo, abbiamo bisogno di nuove leadership, di persone all’altezza di Gandhi, Sadat o Martin Luther King, cioè di qualcuno pronto a mettere in gioco persino la vita per la pace”.  Friedkin ha aggiunto che alla visione dei nuovi film, preferisce quella dei classici, tra cui Fellini e Antonioni, ma che conosce e apprezza tra gli italiani Garrone e Sorrentino, oltre a nutrire una passione per il cinema serbo. Sta lavorando a una versione cinematografica del Rigoletto verdiano con Placido Domingo e accarezza l’idea di un remake di Furore di John Ford (dal romanzo di Steinbeck The Grapes of Wrath), sceneggiato col premio Pulitzer Tracy Letts.

La politica alla Mostra ha avuto un momento “alto” anche sullo schermo grazie al documentario La voce di Berlinguer di Mario Sesti e Teho Teardo, che s’inizia con le immagini del comizio – il 7 giugno 1984 a Padova – durante il quale il segretario del Partito Comunista Italiano venne colpito dall’emorragia cerebrale che di lì a qualche giorno gli sarebbe stata fatale. Al centro del film breve (venti minuti) c’è però la voce, appunto, di un leader che incardinò l’azione dei suoi ultimi anni sul bisogno di onestà e di rigore morale, ben prima di Tangentopoli. Sesti e Teardo ripropongono un discorso di Berlinguer a un festival dell’Unità il cui anelito generoso verso un modello di sviluppo più equo e la cui complessità analitica stridono con certe miserie dell’oggi. Le immagini mostrano un’altra Italia: miseria, lavoro, sacrificio, impegno, solidarietà.

Certo, viene omessa l’epigrafe che il mondo è cambiato da allora: il crollo del Muro di Berlino decretò nell’89 la fine del comunismo in cui a lungo credette Berlinguer pur mitigandolo con i distinguo dell’eurocomunismo e del “compromesso storico”. Non proprio un dettaglio, in un lavoro che tuttavia è meritevole e commovente: c’era una volta Enrico Berlinguer.

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