Il quarantanovenne Gianfranco Rosi, Leone d’oro di Venezia 2013 per il documentario Sacro GRA, racconta che una volta in India gli chiesero se per caso fosse il figlio del grande regista Francesco Rosi, che oggi ha quasi novantuno anni. Lui rispose di sì, mentendo, nella speranza di essere agevolato in vista di un film cui stava lavorando laggiù. Una bugia in fondo neanche tanto grossa, poiché non v’è regista “impegnato” che possa dirsi estraneo all’eredità di Francesco Rosi; che non sia figlio della sua estetica, memore del suo approccio, emulo del suo coraggio. Laddove l’“impegno” non riserva alcunché del rigido ideologismo del secondo dopoguerra, di quei paraocchi che – qualche volta ancora adesso – cercano di costringere la realtà nel recinto delle convinzioni, dei pregiudizi e dei teoremi precostituiti.
Rosi, d’ora in poi parliamo soltanto di Francesco, ha invece sempre coltivato uno sguardo tanto impietoso quanto compassionevole sul mondo, ovvero sui temi cruciali nei suoi film modernissimi per quel ricorrente impasto tra finzione e testimonianza che tempo dopo si sarebbe definito “docu-drama” con un anglismo da gergo cinematografico. Basti pensare a un dittico dei primi anni Sessanta: Salvatore Giuliano sulle tragiche vicende del banditismo e del separatismo nella Sicilia post-bellica funestata dall’eccidio dei contadini a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, e Le mani sulla città dedicato al sacco edilizio di Napoli, un capolavoro in bianco e nero appena restaurato dalla Cineteca Nazionale di Roma.
Dieci anni dopo, con Il caso Mattei (1972) sulla morte del presidente dell’ENI in un incidente aereo nel 1962, Rosi vince la Palma d’oro di Cannes ex aequo con un altro esempio del cinema di denuncia civile, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri (entrambe le pellicole sono interpretate da Gian Maria Volonté). Il film di Rosi presagì quanto è affiorato nelle carte processuali decenni più tardi (Mattei fu vittima di un attentato) e, stando a recenti ricerche, nelle sue fasi preliminari sarebbe costato la vita al giornalista Mauro De Mauro, rapito dalla mafia a Palermo, che dal regista era stato incaricato di indagare sulla vicenda.
Rosi è napoletano, classe 1922, amico di gioventù di nomi che sarebbero diventati altrettanto celebri come lo scrittore Raffaele La Capria, l’attore Aldo Giuffré e il regista Peppino Patroni Griffi, nonché sodale di Giorgio Napolitano (più giovane di tre anni) ai tempi dei comuni studi partenopei in Giurisprudenza e grazie alla passione di entrambi per il teatro. Già aiuto-regista di Luchino Visconti, al pari di Franco Zeffirelli, Rosi assimilò il perfezionismo quasi ossessivo dell’aristocratico Visconti nella preparazione e nella realizzazione spettacolari. D’altro canto, nella cifra tipica di Rosi, che solo per semplicità potremmo ascrivere al film-inchiesta, la “cronaca”, l’incontro popolare, il caso, la vita quotidiana vengono valorizzati non meno della rigorosa ricostruzione storica.
Un’essenziale caratteristica della sua filmografia è la passione per il Sud non come luogo comune folcloristico o nostalgia delle tradizioni perdute (che echeggia in Pasolini). Grazie a Rosi, il cinema non si è fermato a Eboli, ovvero non ha smesso di interrogare il Sud e di interrogarsi lungo il confine “mobile” e arduo tra luce meridiana e ombre della storia, “tra la miseria e il sole” secondo una definizione di Albert Camus, tra le rovine del passato metaforiche di un degrado generale e un futuro incerto. Tutto il cinema “civile” di Rosi guarda verso Sud: da La sfida e I magliari, a Salvatore Giuliano, Lucky Luciano, Cristo si è fermato a Eboli, Tre fratelli e, naturalmente, Le mani sulla città.
Quest’ultimo titolo si direbbe attualissimo, purtroppo, in molte città italiane e perfino al Lido di Venezia dove il film vinse il Leone d’oro nel 1963, due anni dopo il rifiuto della Mostra a selezionare in concorso Salvatore Giuliano con la motivazione che si trattava di un documentario (si sarebbe poi aggiudicato l’Orso d’argento al Festival di Berlino). Rosi è tornato in Laguna da ultimo nel 2012 per ritirare il Leone alla carriera, festeggiato anche da un messaggio affettuoso del presidente Napolitano. Al Lido, infatti, la speculazione edilizia o un’ignavia con ogni evidenza non solo meridionale costringe in abbandono il leggendario Hotel des Bains caro a Thomas Mann e Luchino Visconti (Morte a Venezia). Per non parlare del grande buco scavato per le fondamenta di un nuovo palazzo del cinema: un cratere ricolmato solo in parte, dopo la scoperta dell’amianto interrato in zona e avendo già speso quaranta milioni di euro.
Un cinema verso Sud, si diceva. Hanno fatto perciò benissimo il sindaco Salvatore Adduce a proporre e il Consiglio comunale di Matera a deliberare la cittadinanza onoraria a Rosi, che da oggi sarà nella città dei Sassi per il conferimento fissato domani a mezzogiorno in Palazzo Lanfranchi, presente il ministro dei Beni culturali Massimo Bray. Intanto la Lucana Film Commission gli dedica un omaggio proponendo la visione gratuita nel cinema Comunale delle sue opere girate in Basilicata, sin dal lontano C’era una volta (1967), favola secentesca con Sophia Loren e Omar Sharif, una sorta di Cenerentola nel sud dominato dagli spagnoli, in cui appare anche il santo che vola, Giuseppe da Copertino. E poi Cristo si è fermato ad Eboli dall’omonimo romanzo sul confino di Carlo Levi durante il fascismo (1979, protagonista Volonté) e il lessico familiare negli “anni di piombo” del terrorismo politico di Tre fratelli (1981), con Philippe Noiret, Michele Placido e Vittorio Mezzogiorno.
Nel libro-intervista Io lo chiamo cinematografo, una lunga conversazione fra Rosi e Giuseppe Tornatore (Mondadori, 2012), l’anziano regista ripercorre la sua carriera, i successi, le amicizie, gli amori, i dolori insanabili come la perdita di una figlia – nata dal legame con Nora Ricci – in un incidente automobilistico (alla guida c’era lui) e la morte per un assurdo rogo da sigaretta dell’amatissima moglie Giancarla (sorella della stilista Krizia). Più volte, parlando con Tornatore, Rosi tesse l’elogio della Basilicata e dei suoi abitanti: “Gente orgogliosa, lavoratori, gente che parla poco, che sembra venire da un’altra cultura, consapevole del valore di un contadino, del valore della terra”. E confida un sogno nel cassetto, anzi nell’armadio dei film non fatti (in camera da letto, dove Rosi serba i copioni irrealizzati): “Io chiuso in una masseria a cercare un’idea per raccontare l’Italia di oggi. Fatti, personaggi, opinioni, che riescano a rappresentarla in un film di cui trovare la chiave narrativa. Un giudice, un giornalista, un contadino, un regista…”. Dove pensava di ambientarlo? “In Lucania”. Un cuore riposto dell’Italia che vorrebbe dire di se stessa, di questi anni, ma non ce la fa. E, forse, dei film che verranno.
(Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 20 settembre 2013)
Era,credo, il 1976 quando il maestro girava a Lecce il film “Cadaveri Eccellenti” ed alloggiava all’Hotel President” quando ho avuto l’onore di conoscerlo personalmente. Anche se abbiamo conversato qualche minuto la cosa non mi ha lasciato per niente indifferente ed ho avuto modo di apprezzare il suo pragmatimo e la sua grande umanita’.
Ovviamente si tratta di “Uomini Contro”. Film belissimo e viscontiano. La memoria ogni tanto fa di questi scherzi. Ma perche’ non citarlo nell’articolo?
“uomini in guerra” Uno dei piu’ belli e sconvolgenti; che rovescia i luoghi comuni sull’italia nel 1o conflitto mondiale.