Dappertutto ieri si incontravano ricordi di quel 4 novembre di 50 anni fa, quando Firenze fu invasa dalle acque dell’Arno, quando l’Italia e il mondo rimasero attoniti di fronte al disastro delle botteghe artigiane intorno a Ponte Vecchio, ai danni alle opere d’arte, ai libri inzuppati d’acqua. Tutti ricordano gli angeli del fango, i giovani che arrivarono da tutto il mondo per aiutare, lavorare, restaurare e che ebbero il privilegio di vivere un momento destinato a diventare storico e simbolico di quella che poi venne definita la meglio gioventù e che forse diede un contributo all’avvio del profondo rinnovamento sociale che segnò la fine degli anni Sessanta del secolo scorso.
Nel corso del tempo mi è inevitabilmente capitato di ripensare spesso a quei giorni e forse troppe volte di raccontarli con quel tono insopportabile che assumono i reduci di ogni genere. Ma in questo 4 novembre mi è venuto da pensare che non si è mai celebrata la generazione che di quei momenti fu forse il vero autore, almeno negli ambienti in cui mi trovavo a vivere. Erano gli anni Sessanta, la televisione era castigata, al cinema si poteva fumare e la luce del proiettare si faceva faticosamente strada nella nebbia, alla sera si usciva di sabato e non dopo mezzanotte che era ancora l’ora del ritorno a casa.
Quando con un gruppo di coetanei si cominciò a pensare che avremmo potuto andare anche noi a spalare, si era tutti convinti che i nostri progetti sarebbero stati vanificati dalle preoccupazioni e dalle incomprensioni dei genitori, e non eravamo ancora pronti per affermare la nostra autonomia. Non ho mai saputo quale dialettica si fosse sviluppata nelle nostre famiglie, quali discussioni, quali resistenze, ma so soltanto che alla fine nessuno rimase a casa e ci fu regalato il grande privilegio di sentirci eroi di quella bottega di un artigiano del legno che, lungo l’Arno, ci guardava salire e scendere dalla cantina con simpatia e riconoscenza, che traduceva talvolta nell’offerta di panini con salame che nella mia memoria sono rimasti come l’idea pura – platonica – di panino imbottito.
A cinquant’anni di distanza, superati e dimenticati i contrasti generazionali, si può finalmente riconoscere che a quella specie di epopea fiorentina diede un contributo decisivo la generazione dei genitori degli angeli del fango, di quelli che spesso reduci lo erano davvero – dalla guerra, dalla prigionia, dalla povertà dell’Italia contadina – ma seppero superare i timori ed essere diponibili a quella prima forma di volontariato che i loro figli stavano inventando. La storia non fa tutti quei salti che spesso immaginiamo, non furono solo i ragazzi di allora a costruire nuovi impegni umani e sociali, furono anche i padri autoritari e le madri preoccupate della famiglia tradizionale, e un grande merito va riconosciuto a quanti seppero aprire le porte delle loro case e accompagnarono con affetto il volo dei loro figli e la loro trasformazione in soggetti sociali e collettivi.
L'ASINO DI BURIDANO
Memorie di un guerriero inutile. Costretti a sprecare il tempo nell’insulso addestramento formale, in tuta mimetica, scarponi e cappello con la penna, alla caserma Cesare Battisti di Aosta, Scuola Militare Alpina, inutili a noi stessi, alla società in generale e alle terre inondate in modo particolare. La spiegazione ufficiale era che ai militari in addestramento non si possono assegnare compiti operativi, neanche spalare fango. Almeno ai commilitoni delle zone alpine colpite venivano date licenze per i soccorsi.
Un mese dopo, in esercitazione sul percorso di guerra, cascato male, mi sono rifratturato per un’altra volta il polso sinistro, diventando ancora più inutile.
Ricevo dall’amica Maria Cristina Bartolomei
Ricambio col mio amarcord.
Io ero a Venezia, e l’aqua granda non fu uno scherzo. Ancora mezz’ora di quello scirocco micidiale e credo che la città sarebbe stata travolta, tra l’acqua rovesciata in laguna dai fiumi in piena e il mare che scavalcava gli argini. Invece, quando l’acqua era arrivata a 1.97, cessò la pioggia e soprattutto il vento virò bruscamente da scirocco a bora, che ricacciò in mare l’acqua. Fu comunque un gran dramma, sia per i comuni del litorale (San Piero in Volta, Cavallino, Pellestrina, Chioggia, esposti direttamente al mare, dopo il cedimento dei Murazzi di protezione; e così per alcune isole esposte alle bocche di porto: Burano e soprattutto sant’Erasmo furono spazzate dalle onde; a Murano arrivarono ondate alte 4 metri; Malamocco fu completamente sommersa) sia per la città, specialmente per le famiglie più povere che abitavano regolarmente i piani terra: umidi e minacciati dalle maree (un tempo, nei palazzi, il piano terra non era adibito ad abitazioni, ma a ricovero per le barche, magazzini ecc.) e per i negozi. Hanno avuto ben più di un metro di acqua piena di nafta in casa. Materassi, letti, arredi: tutto da buttare. Culle (vuote) navigavano… La mattina dopo la città era una immensa discarica a cielo aperto di roba impregnata di salso, e fango nero. E i giovani andarono ad aiutare a sgomberare, a distribuire le risorse messe a disposizione da esercito e Croce Rossa.
Ma non ci siamo fatti mancare niente, in famiglia. Mia cognata, all’ottavo mese, si era trasferita da pochissimi giorni a Firenze, la sua città, per avere vicini sua madre e suo padre medico al momento del parto. Mio fratello inaugurò la prima visita nel fine settimana in modo ben anomalo e angosciante. Senza notizie, all’alba del 5 con uno zaino “da guerra” (candele, spago, scatolette) si avviò, sperando che le linee ferroviarie non fossero interrotte. Trovò i suoi sani e salvi, anche se al freddo, perché – come raccontava poi mia cognata – saltato subito il deposito del gasolio, “noi non s’aveva punte stufette”.