Fatti.
‘Fermati e pensa’. È stato questo lo slogan lanciato dalla Comunità armena di Roma per invitare a riflettere su quanto accaduto nel 1915. Il 24 aprile è stato il 98° anniversario del genocidio armeno, il cui riconoscimento è ancora questione controversa, e motivo di profonde lacerazioni e sofferenze. Ora che la ricorrenza è passata, possiamo forse fare qualche considerazione.
È evidente che particolarmente importante è il modo in cui la ricorrenza viene annualmente vissuta in Turchia. A due anni dal centenario, gli occhi sono puntati su questo paese per capire se il suo governo avrà il coraggio di fare quanto il Primo ministro Erdoğan ha fatto a proposito di un’ altra pagina dolorosa della storia turca (il massacro di Dersim, in cui furono uccisi migliaia di kurdi aleviti), ossia chiedere scusa a nome dello Stato. Ad oggi, per capirlo, più che uno scienziato della politica o un sociologo ci vorrebbe un indovino. Le contraddizioni in Turchia sono la regola. A fronte della ‘glasnost turca’ rilanciata da Erdoğan, che implica in primo luogo fare i conti con un passato segnato dall’ostilità prima dei Giovani turchi e poi del kemalismo nei confronti di ogni differenza culturale, etnica, religiosa che potesse (questa la sindrome) mettere a rischio l’integrità nazionale, la libertà di espressione è oggi a tratti non meno vulnerabile di quanto lo fosse un decennio fa, prima dell’avvento al potere dell’AKP, come dimostra la delicata situazione della stampa o il recente caso del pianista Fazil Say, condannato a 10 mesi (con sospensione della pena) per aver postato tweet offensivi dei sentimenti religiosi (questa l’accusa). Quando si viene all’atteggiamento nei confronti dei fatti del 1915, le contraddizioni non sono di minore entità. Orhan K. Cengiz, avvocato impegnato in molte battaglie in difesa delle minoranze, ha usato l’immagine di un ‘tunnel nel tempo’ dentro cui sembrava darsi il 24 Aprile di quest’anno. Da un lato, le dichiarazioni del Ministro degli Esteri in risposta al discorso – peraltro prudente – di Obama (che anche quest’ anno ha evito il ricorso al termine ‘genocidio’), che hanno lamentato il carattere unilaterale del giudizio storico del Presidente americano, insensibile alle ragioni dei turchi. Una dichiarazione, difensiva e di chiusura, nella sostanza non diversa da tante sentite 10, 20 o 30 anni fa; o ancora, nello stesso spirito di chiusura difensiva, alcune interviste rilasciate da storici apertamente negazionisti come Yusuf Halaçoğlu e pubblicate su organi di stampa solitamente impegnati in campagne pro-democratizzazione, in cui si nega che sia mai avvenuto alcun genocidio, si attacca la ‘lobby’ armena in modo rozzo e brutale, si mette in guardia lo Stato dal pericolo degli ‘hidden armenians’. Dall’altro lato, tuttavia, le cerimonie commemorative del 24 Aprile organizzate dalla società civile, dai movimenti antirazzisti turchi in sinergia con equivalenti movimenti internazionali, tenutesi in tutto il paese – ad Adana, Izmir, Ankara, Batman, Bodrum, Dersim, Diyarbakir, e naturalmente Istanbul, la più significativa delle commemorazioni per molte ragioni. Di anno in anno, queste commemorazioni vedono la partecipazione di un numero crescente di persone: dalle poche centinaia del 2010 – il primo anno in cui si potè pubblicamente commemorare le vittime dei fatti del 1915 a Istanbul, in piazza Taksim (simbolo della Turchia kemalista) – alle diverse migliaia di quest’anno; di anno in anno, il linguaggio delle celebrazioni si fa meno circospetto e prudente: dal ricordo del ‘Grande Male’ che segnava lo slogan del 2010, si è passati alla commemorazione dei ‘fatti del 24 Aprile del 1915’ nel 2011, a quella di ‘un dolore che appartiene a tutti noi’ del 2012, fino allo slogan di quest’anno, che suonava ‘Commemoriamo le vittime del genocidio’. A proteggere i manifestanti in piazza, tra i quali quest’anno anche numerose delegazioni straniere (inclusa una proveniente dall’Armenia), la polizia di quello stesso Stato che ancora nega il genocidio. Fino a qualche anno fa, sarebbe stato assolutamente impensabile, mentre oggi – al di là di gruppi più violentemente nazionalisti – è accettato come normale dalla maggior parte della popolazione. E ancora: saldando la questione armena al tentativo di soluzione di quella Kurda, il BDP – il partito che rappresenta in Parlamento i kurdi, e che con l’AKP è protagonista dell’attuale fase di ricerca di una definitiva via d’uscita politica e costituzionale da un conflitto che ha prodotto più di 40.000 morti – ha chiesto che agli armeni siano rivolte scuse pubbliche, e ha annunciato la presentazione della richiesta di un’indagine parlamentare che faccia luce su tutti gli aspetti dei massacri successivi alle deportazioni forzate. Massacri che il BDP chiama apertamente genocidio, facendo entrare l’impronunciabile parola in Parlamento. Si tratta, come dovrebbe risultare evidente, di segni di non poco conto del tentativo di fare i conti con il passato, che sembrano proiettare in un tempo completamente altro rispetto alle dichiarazioni del Ministro degli Esteri o alle interviste degli storici negazionisti. Sarebbe tuttavia semplicistico ridurre la contraddizione a tensioni tra società civile e Stato, poiché la società civile sa esprimere il vulnus del nazionalismo altrettanto marcatamente di quanto faccia lo Stato. Nella contraddizione, però, rimane il fatto che, oggi, in Turchia è possibile esprimere sui fatti del 1915 opinioni diverse, ed è possibile farlo pubblicamente, incluse quelle opinioni che chiedono – su importanti mass media – un pubblico rito di espiazione. C’è solo da sperare che il processo venga condotto con l’intelligenza e il radicalismo che erano propri di Hrant Dink, che radicale era nella misura in cui sapeva andare alla radice del problema. Alla radice del problema Dink vedeva la necessità di convincere turchi e armeni che essi hanno bisogno gli uni degli altri, gli armeni di liberarsi dell’immagine del turco genocida e i turchi di quella dell’armeno anti-turco. Nessuno dei due può curare il proprio dolore senza entrare in relazione con l’altro, senza condividerne il dolore e la sofferenza. I turchi hanno bisogno degli armeni per liberarsi dai fantasmi di un passato che avvelena il presente, e gli armeni hanno bisogno dei turchi, sosteneva ancora Dink, per tornare a poter seppellire i loro cari in quella terra a cui tornano naturalmente, come fa un corso d’acqua che cerca la sua fessura nella roccia. In un contesto in cui le memorie sono spesso fortemente polarizzate come quello turco, la posizione di Dink era radicale, nello stesso momento in cui parlava al cuore e all’intelligenza delle persone.
Possiamo non lasciare soli armeni e turchi in questa ricerca di una difficile pacificazione delle loro memorie divise. Possiamo fare molto in termini di trasmissione della conoscenza storica, di educazione. Possiamo fare molto in termini di costruzione della memoria. Può, potrebbe, fare molto la scuola, con l’aiuto della comunità armena, e di chiunque ne voglia prestare, nello spirito di Dink. Possiamo cominciare dal vigilare sulle nostre parole, dal non usarle a sproposito, come nel caso di quell’etichetta ‘giovani turchi’ affibbiata a rappresentanti del PD contro cui si è ribellata la Comunità armena di Roma con il suo appello alla stampa italiana la scorsa settimana. Chiediamo alla stampa di bandire l’espressione, e vigiliamo su noi stessi, nelle nostre discussioni sulla politica italiana. Possiamo cominciare anche da qui. Fermiamoci insomma e pensiamo.