Se c’è un paese europeo nel quale il cinema di Federico Fellini avrebbe dovuto sentirsi «a casa», questo è la Spagna. Certo, per le comuni radici cattoliche e latine (Seneca e Marziale erano iberici), ma anche per la vena grottesca o la deformazione farsesca della realtà – il cosiddetto esperpento caro al drammaturgo Ramon Maria del Valle-Inclàn (1869-1936) – che spesso, a torto o a ragione, viene considerata una cifra tipicamente felliniana. Invece non andò così e molti dei film del Nostro furono censurati dal regime franchista protrattosi sino alla metà degli anni Settanta. La dolce vita (1960), per fare l’esempio più clamoroso, apparve sugli schermi di Madrid e Barcellona soltanto ventuno anni dopo l’uscita italiana. Al capolavoro con Marcello Mastroianni e Anita Ekberg non giovò neppure una entrevista en exclusiva para España concessa da Fellini a Giorgio Bocca per il giornale «Triunfo» nel marzo del ‘60, in cui il regista presentava l’opera come «una película catolica».
I rapporti tra Fellini e la Spagna, inficiati dall’autoritarismo del caudillo Francisco Franco, restano tuttavia vividi grazie ad alcune amicizie spagnole del Riminese. È il caso di José Luis Villalonga, un aristocratico che era stato giovanissimo sostenitore dei nazionalisti durante la guerra civile. In seguito Villalonga divenne critico verso il regime e si rifugiò in un esilio dorato da romanziere e playboy internazionale, come l’amico Juan Carlos (re dal 1975 al 2014), oltre che interprete di ruoli secondari nel felliniano Giulietta degli spiriti e in Colazione da Tiffany di Blake Edwards. Soprattutto, Federico intrattenne rapporti amichevoli con il regista catalano Jordi Grau Solà, nato a Barcellona nel 1930: un «fratellino più piccolo» cui scrisse numerose volte nel corso di oltre un trentennio, tra un incontro e l’altro in Italia o in Spagna. I due si erano conosciuti a Roma nel 1959 dove Grau frequentava il Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC). Fellini gli si rivolge chiamandolo «Giorgino» col suo proverbiale ricorso al vezzeggiativo, e, dapprima laconico, si fa via via più affettuoso e disponibile a confidarsi. «Caro Giorgino» – gli scrive nel maggio 1961 a proposito della perdita di un bambino appena nato – «mi dispiace di quello che ti è accaduto, anche a Giulietta e a me molti anni fa successe la stessa triste cosa… Buon lavoro e buona fortuna e un bacetto sulla fronte a tua moglie».
Di là dalla figura di Grau, che pure ha avuto un suo rilievo (tra l’altro, è ricordato per il primo nudo femminile del cinema spagnolo nel suo film La trastienda del 1975), questo resta uno dei rari epistolari felliniani di cui si abbia traccia. È adesso raccolto nel volume Federico Fellini e la Spagna della giovane studiosa Stefania Miccolis, che vive e lavora a Roma dopo essersi specializzata in restauro cinematografico presso l’Università «Paris VIII» (Carabba ed., pp. 324, euro 25,00).
Dopo la morte di Fellini nel 1993 sono stati pubblicati il suo delizioso carteggio con Georges Simenon, nonché la corrispondenza con gli sceneggiatori Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, e, soltanto in spagnolo, due lettere indirizzate a Luis Buñuel. Le delicate missive a Grau, del quale sono andate perdute le risposte, fanno luce sui rapporti di Fellini con un Paese che – censura a parte – non lo ha mai amato particolarmente, sebbene abbia prodotto il fenomeno di Pedro Almodóvar, un «fellinismo» post-moderno acclamato in mezzo mondo. Il volume della Miccolis è accurato negli apparati critici e ricco di interviste a cineasti e studiosi iberici. Ecco le testimonianze del regista «impegnato» per eccellenza Mario Camus («Gli preferivo Monicelli») e quelle di Gubern, Perales, nonché del nostro Tullio Kezich. Qua e là riecheggiano i nomi di altri amici di Federico, come Luis García Berlanga e Rafael Azcona, il sodale più importante di Marco Ferreri. Un genio creativo ed anarchico, Ferreri, che sbocciò giusto nella Spagna franchista grazie a El pisito e El cochecito alla fine degli anni Cinquanta, in pieno boom da noi e sul principio del desarrollo, il loro miracolo economico a più lunga gittata. Ferreri a Madrid fu sempre a suo agio: motivo, questo, di una scherzosa rivalità con Fellini. E sebbene nel libro della Miccolis non potesse esservi, un altro regista spagnolo di valore, il fantasioso cinquantenne Juan Manuel Chumilla-Carbajosa (El Infierno Prometido e Desnudos Desnudos), da studente del CSC negli anni Ottanta conobbe Fellini a Cinecittà. Di recente gli ha dedicato il cortometraggio ¡La Rumba!, ispirato alla Saraghina di 8 ½ (1963).
Fellini, ocho y medio uscì abbastanza presto, nel 1967, vietato ai minori di 18 anni per preservarli forse da quel «puro abisso» accostato al celebre dipinto di Velázquez Las Meninas, perché, si scrisse, parimenti «barroco, retórico y melancólico». Non siamo d’accordo sul barocco, ma ci siamo capiti: l’amore e l’odio spagnoli verso Fellini sono di chi riconosce una voce straniera quale familiare o addirittura interiore. E ne diffida, e ne è attratto.
«Federico Fellini e la Spagna» di Stefania Miccolis (Carabba ed.) viene presentato oggi 11 marzo a Roma alla Sala Trevi della Cineteca Nazionale. Alle 17 sarà proiettato «Il bidone» di Federico Fellini (1955), alle 19 «Il peccato» di Jordi Grau, amico e corrispondente spagnolo di Fellini. «Il peccato» (1961) racconta due storie d’amore durante la «Verbena»; nel cast Umberto Orsini, Marisa Solinas e Gian Maria Volonté. Alle 21 incontro con Alberto Crespi, Stefania Miccolis, Italo Moscati, moderato da Daniela Amenta, per la presentazione del volume «Federico Fellini e la Spagna». A seguire, «Non si deve profanare il sonno dei morti» di Jordi Grau (1974), un angosciante horror ispirato a Romero, film noto anche con i titoli «Da dove vieni?» e «Zombi 3», con Ray Lovelock, Arthur Kennedy, Cristina Galbò.
Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 11 marzo 2015.