Experience and its Modes di Michael Oakeshott è un’opera affascinante, di pura filosofia. Pubblicata nel 1933 da Cambridge University Press, essa doveva restare l’unico libro dell’autore fino all’uscita nel 1975 di On Human Conduct. Eliminato ogni dualismo fra pensiero e realtà, secondo il movimento di pensiero che è proprio della filosofia post-kantiana, non solo dell’idealismo, ogni cosa ci si presenta, osserva l’autore, come esperienza: cioè come una rete di idee e interpretazioni che si danno sotto la forma del giudizio. Vivendo, i nostri giudizi si affinano o diventano più appropriati; e il mondo di idee esperito acquisisce un grado sempre maggiore di unità, cioè di coerenza e completezza. Il flusso dell’esperienza, proprio per adempiere a questa esigenza di unità o comprensione, viene poi da noi interrotto attraverso l’elaborazione di idee astratte costituenti universi di conoscenza a sé stanti, particolari. Sono questi i “modi” dell’esperienza, che sono sempre sue modificazioni difettive: deficitarie di essere, potremmo dire, in quanto nascono da “arresti” del flusso esperienziale. I modi, che possono a ragione essere infiniti, rappresentano null’altro che i campi di sapere o attività costituiti e riconosciuti. Tutti parziali, sia perché non esclusivi, sia perché nascenti per “sottrazione”. Ora, quella che viene qui individuata non è altro che una teoria dei distinti, per dirla nel linguaggio di Benedetto Croce (d’altronde la stessa centralità del concetto di giudizio richiama in modo inequivocabile la filosofia del pensatore napoletano). Ma l’elemento di somiglianza più impressionante è dato dal modo in cui queste “sfere” di comprensione o realtà vengono concepite. Proprio come in Croce, da una parte esse sono in sé autosufficienti, autofondate, autonome, indipendenti, omogenee, internamente coerenti, e distinte le une dalle altre pur non rappresentando un tipo di esperienza separata; dall’altra non sono assolutamente gerarchizzabili, tanto meno in una “scala del sapere” di hegeliana memoria. In sostanza ogni modo è tutta l’esperienza ma vista da un particolare angolo prospettico, da un punto di vista parziale. Oakeshott concentra la sua attenzione su tre di questi modi: la Storia, la Scienza, la Pratica, tralasciando l’Arte che affronterà separatamente in un saggio successivo. Un discorso a parte poi egli fa per la Filosofia, che pure è un modo a tutti gli effetti, con la sua specificità ma senza la possibilità di essere considerato “superiore” agli altri. La Filosofia infatti è il modo dell’esperienza in cui l’esperienza stessa viene vista dal punto di vista della totalità: mentre lo storico, lo scienziato, l’uomo pratico, persino l’artista, devono astrarre dagli altri punti di vista, la filosofia è senza presupposti e quindi vede tutto il processo. La sua però non è una metaprospettiva, ma ancora una prospettiva. L’impianto idealistico fa sì poi che Oakeshott, proprio come Croce, veda le cose a parte subjecti, potremmo dire con una certa imprecisione concettuale. Questo comporta che sia lo storico a costituire la storia, lo scienziato la scienza, l’uomo pratico la Pratica: la storia vede l’esperienza sub specie praeteritorum (e qui per esplicita affermazione degli studiosi l’influsso della teoria crociana della “contemporaneità” di ogni storia è forte); la scienza sub specie quantitatis (il che comporta una serie di conseguenze logiche di cui sarà necessario parlare); la pratica sub specie voluntatis e sub specie moris. La trattazione specifica dei modi è illuminate sotto molti aspetti. Ciò che però è forse più importante è che Oakeshott, come Croce, insista molto sull’errore e il pericolo nascenti dalla confusione di un modo con l’altro, dalla “ignoratio elenchi”: “un’idea -dice- non può servire due mondi”. E quindi lo scienziato non può farsi artista o filosofo e viceversa; l’uomo pratico non può perdersi in filosofemi; l’arte ha una sua autonomia ed è corrotta da fini estrinseci di tipo politico, morale, pedagogico…La teoria dei modi di Oakeshott, come quella dei distinti di Croce e più di quella delle “province” di cui parla Collingwood (nel cui pensiero scorre però anche una vena gentiliana che lo porta a gerarchizzare le sfere della vita umana), è in concreto un’affermazione di pluralismo e libertà umana.
CROCE E DELIZIE