LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Esempio

Parole.

La forza normativa di ciò che è esemplare è stata mostrata da Alessandro Ferrara in un libro di non molti anni fa (La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli 2008): se delle vite, come anche dei corsi di azione collettiva, assumono un valore esemplare, di modelli degni di imitazione, è “in virtù di una congruenza ottimale fra la condotta e un certo motivo ispiratore che la sottende”, una coerenza che “suscita il sentimento dell’affermazione della vita” (p. 86), che attiva la facoltà dell’immaginazione, che implica l’apertura di orizzonti e spazi di possibilità. Un esempio chiama all’azione, oltre che alla riflessione, perché indica la via del dover essere non in termini di astratti e disincarnati imperativi, ma in virtù di un senso di identificazione con un modello, abbastanza “tipico”, riconoscibile alla nostra esperienza e intuizioni morali, da un lato, ma anche “straordinario”, “eccezionale” e “non usuale”, dall’altro (p. 71). In tempi che anche a spiriti non apocalittici appaiono tutt’altro che rosei, trovare esempi di questo genere è motivo di speranza. Vorrei richiamare l’attenzione su due di essi, che mi sembrano spingere in virtù della loro forza esemplare i nostri orizzonti normativi in una stessa direzione.

Il primo è il verdetto di condanna di Anders Behring Breivik a 21 anni di carcere. C’è chi ha giudicato la sentenza troppo mite, e chi viceversa ha flirtato (per carità, senza accoglierne l’uso della violenza) con la sua “lucida denuncia” del suicidio identitario dell’Europa di fronte all’islamizzazione e al multiculturalismo (si veda il caso di Richard Millet, editor di Gallimard, discusso da noi su Il Foglio del 29 agosto), quasi compiacendosi del gesto trasgressivo e dissacrante il politicamente corretto multiculturalista. A me invece quella sentenza pare esemplare, esattamente per le ragioni sottolineate con grande forza da Giuliano Compagno su Gli Altri di Venerdì 31 agosto: quella sentenza si fa carico di una civiltà giuridica, di un orizzonte di valori, ed è come se dicesse che la differenza tra uno stato civile e Breivik sta proprio nel rifiuto di riprodurre il Male, nel riconoscere il progetto di Breivik nella sua folle lucidità e nel rispedirlo al mittente con la solidarietà di una intera nazione, pensando la condanna come un guanto di sfida raccolto. I 7670 giorni di galera sono i giorni della sfida, quella in cui o “vincerà la Norvegia e Breivik muterà in un troll santificato e resipiscente o prevarrà Breivik , che resterà convinto e immerso nella sua ‘violenza’ ontologica e politica, e allora la Norvegia non esisterà più, e con essa ogni idea di riscatto, di cambiamento attraverso una pena espiata in un carcere giusto e umano” (Compagno). Una sfida civile e mortale, in cui l’intero Paese dichiara Brevik “nemico numero uno della nazione”, e lo sfida con le stesse armi che la logica violenta e assassina giudica espressione di una civiltà corrotta, indebolita, meschina. Di esemplare c’è la capacità di rispondere in modo inusuale e straordinario a quel diffuso senso di crisi su cui populismi e razzismi soffiano con effetti sempre più tragici ribadendo che quei valori – multiculturalismo, pluralismo, difesa della dignità di ogni singolo essere umano, speranza nelle possibilità di riscatto e cambiamento – sono la via d’uscita dal senso della crisi, o almeno parte di essa, e non il sintomo né tanto meno la causa della crisi stessa.

Il secondo esempio è la figura del Cardinale Carlo Maria Martini. Mi sembra di non trascurabile forza il valore simbolico di due luoghi significativi nella sua biografia: quella Gerusalemme in cui avrebbe voluto passare i suoi ultimi anni, e l’Aloisianum, l’Istituto di studi filosofici dei padri Gesuiti di Gallarate. Luoghi che incarnano e danno consistenza fisica a quella ricerca del dialogo in condizioni tribolate che Martini esprimeva. Posso, si può forse facilmente, provare a capire perché tanto attaccamento a Gerusalemme, laddove il dialogo è quotidianamente zittito dal frastuono della violenza e dei mille conflitti, ma laddove pure il dialogo non cessa, non deve e non può cessare, non per estinzione delle mille voci, ma per la capacità delle mille voci di dare vita a un coro polifonico; voci educate dall’insegnamento di figure come quella del Cardinale Martini. E si può ben apprezzare il valore di un luogo di studio, meditazione e discussione come l’Aloisianum di Gallarate, aperto e coraggioso nel promuovere il confronto, anche tra credenti e non credenti, luogo in cui quel che conta è pensare, e non credere o non credere, come amava appunto dire il Cardinale Martini. Nel suo lungo e coraggioso operare Martini ha portato il senso di quei luoghi, il senso e il compito che essi significano. Luoghi e cammino esemplari di una civiltà che davanti alla crisi non si chiude in se stessa, ma si apre; dagli altri apprende, impara a criticarsi come anche a diventare più certa di se stessa, laddove sia il caso. Il senso della sentenza contro Breivik e l’opera del Cardinale Martini sono due esempi, due modelli ciascuno nel proprio contesto, tenuti insieme dalla stessa tenace e convinta passione per una società aperta e pluralista, una passione coerente che suscita il sentimento della vita e muove l’immaginazione.

  1. Gentile Professor Rosati,
    desidero ringraziarLa per il Suo commento, benevolo e acuto. Sono posizioni comuni che ci conducono ai limiti di un orizzonte polemico ma ne vale la pena. Da un anno penso che vi fossero due ipotesi di soluzione per lo stato norvegese: l’uccisione, sul campo, di Breivik; la sentenza emessa. Ho vissuto in Norvegia quattro anni, so quanto siano forti e leali. Dei loro difetti parlerei a parte, ma quelle due virtù le posseggono. Invece la posizione di Millet, come Lei stesso opina, mi appare drammaticamente aporetica. Non conduce a nulla. E per questo non mi tange.
    Le invio il più caro saluto e i complimenti per il Suo pregevole, complesso lavoro.
    Giuliano Compagno

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