Quando se ne parla in un libro, in un convegno o in un’aula universitaria, si tratta del millenario dibattito su legge positiva e legge naturale, su leggi dello stato e leggi della coscienza, sulla legittimità di ammettere l’esistenza di principi non contrattabili, sulla contrapposizione tra legge umana e legge divina. Sono stati scritti centinaia di libri su questi temi, ma il problema resta sempre aperto davanti a noi, chiaro ma – per fortuna – non risolto. E’ facile rendersene conto soprattutto quando non se ne parla in modo accademico o scientifico, ma davanti a una pizza con amici, raccontandosi che cosa si sta facendo e di che cosa ci si sta occupando. Non c’è bisogno di prendere posizione sulla esistenza o meno di un diritto naturale, di leggi non scritte o di imperativi categorici, per accorgersi che quasi ogni giorno ci si trova alle prese con la domanda, a volte ridicola ma a volte drammatica, su quanto sia opportuno o necessario arretrare rispetto alle convinzioni personali – per accettare un governo, una riforma, una moda, un atteggiamento diffuso – e quando invece sia indispensabile fermarsi, dire basta e opporsi, resistere, diventare intransigenti.
Viene qualche volta da pensare che sarebbe stato facile capire che era il momento di non arretrare più, di fronte a scelte decisive e indiscutibili – l’apartheid, il nazismo, la resistenza – ma forse occorre pensare che anche a quelle scelte gli individui arrivarono giorno dopo giorno, attraverso una continua tensione tra inevitabili arretramenti e progressive prese di coscienza, senza mai trovarsi di fronte alle secche alternative che ci possiamo immaginare sfogliando i libri di storia. Saremmo stati eroi, avremmo trovato la forza di dire no, adesso basta, oppure saremmo passati attraverso avvenimenti decisivi senza neppure rendercene conto? E oggi le cose sono davvero più banali oppure stiamo esattamente continuando a non renderci conto di qualcosa che, da vicino, non ha ancora quei caratteri che altri un giorno si immagineranno attraverso i libri di storia?
A un estremo sta Antigone che, fin dall’antichità, è divenuta simbolo della resistenza alle leggi ingiuste in nome delle convinzioni profonde della coscienza:
Non Giove a me lanciò simile bando, / né la Giustizia, che dimora insieme / coi Dèmoni d’Averno, onde altre leggi / furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi / io non credei che tanta forza avessero / da far sí che le leggi dei Celesti, / non scritte, ed incrollabili, potesse / soverchiare un mortal: ché non adesso / furon sancite, o ieri: eterne vivono / esse; e niuno conosce il dí che nacquero.
All’altro estremo sta quel soldato giapponese – Hiroo Onoda – morto pochi giorni fa a 91 anni che, su un’isola delle Filippine, continuò la sua personale guerra mondiale fino al 1974. Trent’anni di guerra solitaria, prima con pochi compagni e poi da solo. Quando la guerra finì, non volle credere ai volantini americani, che considerò un trucco per demoralizzare i nemici, e rimase per trent’anni in attesa di un ordine dei superiori che arrivò finalmente nel 1974 quando il suo comandante, ormai diventato libraio, tornò sull’isola delle Filippine e gli ordinò di deporre le armi.
Forse è beato non il popolo che non ha bisogno di eroi ma quello che pensa di non avere bisogno di eroi.