“Abbiamo fatto l’Europa. Dobbiamo adesso fare gli europei”. La parafrasi di ciò che ebbe modo di dire Massimo d’Azeglio a proposito dell’Italia post unitaria, può essere utile oggi a cogliere il problema più profondo che rende così squilibrata la costruzione di un’unione continentale alla vigilia delle elezioni del prossimo Parlamento. È un problema fondamentale e complicatissimo, quello della creazione di un demos europeo, quale premessa ad una vera democrazia continentale. Tuttavia, esiste una proposta interamente italiana, non altisonante ma concretissima che potrebbe superare l’impasse ideologico creato dalla guerra di posizione senza fine tra euroscettici e federalisti: l’idea è quella di rendere parte integrante dei curricula scolastici degli studenti universitari e della scuola media superiore un periodo di studi di sei mesi da trascorrere in un altro Paese europeo. Facendo partire dalle generazioni più giovani, più naturalmente globali lo sforzo che punti a creare una vera e propria cittadinanza europea.
Fu la scuola dell’obbligo di Casati nel 1859, con il suffragio universale, la leva militare (e ad una sanguinosissima Guerra)e molto più tardi la televisione, a “fare (parzialmente) gli italiani” e a creare i presupposti per una democrazia che, seppur tra tante contraddizioni, creò legittimità per le istituzioni dello Stato italiano. In Europa oggi si pone lo stesso problema: non si può andare avanti verso una integrazione fiscale che pure è resa indispensabile dall’unione monetaria, senza rafforzare la “rappresentatività” di chi decide quanto tassare; tuttavia, il rafforzamento della democrazia non può – per definizione – prescindere da azioni che promuovano la creazione di opinioni pubbliche in grado di ragionare in termini non nazionali, senza le quali la democrazia non ha fondamento.
L’errore tragico di un’intera generazione di leader europei è stato quello di pensare che il progetto dell’Unione potesse prescindere dallo sviluppo di una democrazia su scala continentale. La convinzione – mai resa esplicita – è che l’Europa fosse questione troppo complicata per poter essere spiegata, per poter permettersi il confronto con il voto. Che le stesse regole di funzionamento dell’Unione dovessero essere scritte in maniera “da non essere comprensibili” ai cittadini europei (come confessò qualche tempo fa il vice Presidente italiano della “convenzione” che elaborò il trattato di Lisbona).
Ed è sul fronte della democrazia, dell’austerità decisa da chi non conosco e non ho mai votato, che il sogno di Ventotene sta franando. Secondo i dati della stessa Commissione Europea (Eurobarometro) il 66% degli europei pensano che la “propria voce non conta” e due terzi neppure conoscono il nome del Presidente della Commissione. I dati, poi, sono persino peggiori se si fa riferimento alle elezioni che si ripeteranno tra due mesi. Il paradosso è che se dal 1979 a oggi i poteri dell’assemblea eletta direttamente dai cittadini sono aumentati, la partecipazione al voto è costantemente diminuita passando dal 61 al 43% nelle ultime elezioni. Ma ancora più sconcertanti sono i dati relativi ai giovani: se tra le persone con più di 55 anni l’astensione era inferiore al 50%, meno di un elettore su tre tra i 18 e i 40 si è recato alle urne alle ultime elezioni del 2009.
È evidente che qualcosa abbiamo sbagliato ed è – di nuovo paradossalmente – la crisi a diventare l’opportunità per trovare una soluzione. La fiducia nelle istituzioni scende ancora di più nell’aera Euro ed è in rovinosa caduta in paesi come Grecia, Italia e Spagna che maggiormente hanno pagato il costo della “tassazione senza rappresentanza”. È proprio da questi Paesi che nascono esperienze come la lista Tsipras,contraddittorie ma certamente più transnazionali di quanto non lo siano le tradizionali “famiglie politiche europee”. Ed è sempre la crisi che impone per la prima volta nella storia, un’elezione politica di un parlamento europeo che si gioca su temi non nazionali.
L’Italia ha però a sorpresa, una carta importante di cui ancora nessuno parla e che potrebbe unire ideologie contrapposte perché di buon senso. La proposta nasce da uno studio del think tank italiano Vision che trova il sostegno del Ministro della Pubblica Istruzione, Stefania Giannini, e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per gli Affari Europei, Sandro Gozi. L’idea è che così come per fare gli italiani ci volle la scuola dell’obbligo, si potrebbe far ripartire l’idea di fare gli europei rendendo obbligatorio (o fortemente incentivato) un semestre di studio da svolgere in un altro Paese europeo.
Peraltro, i soldi per l’ERASMUS curriculare sarebbero – secondo Vision – già disponibili: basta il dieci per cento dei 55 miliardi di Euro che attualmente la Commissione spende annualmente per proteggere gli agricoltori e i latifondisti europei dalla competizione internazionale, per portare ogni anno all’estero un quinto dei venti milioni di studenti europei che frequentano l’università e garantire a tutti il diritto dovere di confrontarsi – almeno per sei mesi durante i propri studi – con i giovani di un altro Paese europeo; mentrese si arrivasse ad un quarto dei fondi della politica agricola comune, l’opportunità verrebbe estesa anche agli studenti della scuola secondaria creando le premesse di una vero e proprio di mobilità transnazionale mai sperimentato prima su questa scala.
Un obiettivo certamente ambizioso e da raggiungere con gradualità perché esso chiederebbe uno sforzo molto utile di adeguamento da parte di tutte le università e le scuole europee. I risultati potrebbero essere superiori a tante altre ipotesi tradizionali che hanno il torto di andare a sbattere contro il muro delle divisioni ideologiche: maggiore propensione per i più giovani a pensare in chiave europea e a prendersi la responsabilità di governare un futuro che sembra bloccato; l’apprendimento di una lingua straniera e un incremento della adattabilità – sul lavoro e negli studi – ad una società che è già globale e che presenta rischi che vanno governati e non evitati; una maggiore conoscenza e tolleranza nei confronti degli altri.
Del resto, la sfida di questi tempi è quella di cercare – nel terreno non convenzionale tra Destra e Sinistra – idee in grado di “cambiare verso” alla politica, in maniera originale e concreta, utile per creare aspettative nel breve periodo e, contemporaneamente, destinata a dispiegare effetti duraturi.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 22 Aprile