“Qui l’unico limite è il cielo”: ha detto proprio così qualche giorno fa a Napoli, l’amministratore delegato della società che capitalizza più dell’intera Piazza Affari,nell’annunciare l’apertura della prima scuola che svilupperà applicazioni per i sistemi operativi Apple in Europa.Ma com’è possibile che la società che, più di tutte, ha costruito futuro, fa un significativo investimento in conoscenza nella città che sembra essere stata abbandonata dall’intera generazione dalla quale ci si aspetta innovazione?Può ripartire da Napoli un più ampio progetto di cambiamento che cerchi nelle università e nella ricerca quella crescita stabile che continua a sfuggirci?
In effetti, la conoscenza non è stata trattata bene negli ultimi vent’anni nel Paese che gli ha dato alcuni dei contributi più significativi. L’università si trova, secondo alcuni, di fronte ad un doppio disfacimento: meno soldi a livello complessivo e una sostanziale ritirata dal Mezzogiorno che verrebbe penalizzato da meccanismi di valutazione che aggravano il ritardo, allocando una parte crescente delle risorse alle università migliori. Tuttavia, alle analisi di chi tuona chiudendo regolarmente il lamento con una richiesta di più soldi, manca, spesso, una proposta.
In effetti, è vero che spendiamo meno di altri Paesi in università, come dicono i numeri dell’OECD. Il dato è persino più drammatico se consideriamo che lo Stato spende in pensioni quattro volte di più di quello investe in educazione (dagli asili alle università). Tuttavia, se vogliamo cogliere gli elementi positivi su cui costruire una proposta, va anche riconosciuto che, dopo la caduta verticale che si è verificata tra il 2008 ed il 2013, negli ultimi due anni la tendenza si è bloccata e nel 2016 le risorse per l’università aumentano per l’assunzione di docenti che, in parte, sono esterni ad un sistema che è malato di autoreferenzialità.
Vero è, poi, che la valutazione tende a spostare i finanziamenti sugli atenei del Nord. Ma altrettanto vero è che di merito la foresta pietrificata dell’università italiana ha bisogno assoluto e che è positivo il fatto che la quota di risorse assegnate sulla base dei risultati sia passata da zero al 25% negli ultimi sei anni. Semmai i meccanismi di riconoscimento del merito vanno migliorati e rafforzati. Legando a migliori prestazioni, non solo e non tanto la quantità di risorse, ma quella di autonomia che è indispensabile per far crescere chi lavora meglio. Eliminando l’equivoco che contino solo le pubblicazioni. Introducendo nella valutazionei miglioramenti di un’università su sestessa, più che i valori assoluti, e assegnando un premio a quelle che crescono in territori difficili. Nel Mezzogiorno, ad esempio.
Per serietà, va riconosciuto, però, che gli atenei del Sud continuano ad avere a disposizione finanziamenti ordinari per studente che sono allineati a quelli del resto d’Italia (secondo i dati MIUR, quasi esattamente un terzo del totale al quale corrisponde un terzo degli iscritti in corso). Senza contare, però, i fondi europei destinati al Sud e su cui è urgenteche il MIUR tagli qualsiasi ulteriore mancia a quei sistemi di clientela che sono i peggiori nemici del cambiamento.
Infine, sono pochi i laureati (il 17% contro una media del 33 per i paesi più sviluppati), anche se sono aumentati del 50% negli ultimi dieci anni. È, evidente, però, che le imprese italiane chiedono meno competenze (inferiore è in Italia la differenza di remunerazione tra chi è laureato e chi non lo è, ed ancora più basso è il premio per chi consegue un dottorato).
Per riuscire a scardinare sistemi di potere che ruotano attorno a pochi baroni e la reciproca indifferenza tra ricerca e imprese non possiamo, però, fare l’errore di affidarci all’ennesima riforma che pretenda di cambiare tutto e faccia l’errore di distribuire su troppi tavoli risorse politiche e finanziarie scarse. Rimandando, di fatto, il conseguimento di risultati in grado di conquistare al cambiamento ulteriore consenso.
Si approvi, dunque e subito, un Piano Nazionale della Ricerca che indichi obiettivi limitati e ambiziosi. Si concentri su pochi territori e su quelle che sono le priorità industriali, lo sforzo politico e manageriale necessario per rendere stabile la collaborazione tra imprese, centri di ricerca, governo e società civile che è stata indispensabile – dalla Olivetti fino all’Apple – per fare innovazione.
Tim Cook deve aver visto a Napoli quella fame di riscatto, quel filo di follia che è all’inizio del sogno visionario di Steve Jobs di creare perfezione e che la multinazionale della mela sembra aver smarrito senza il suo fondatore: potrebbe essere questo il vantaggio paradossale di un intero Paese che riparte dopo essere rimasto fermo per vent’anni.
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 2 Febbraio 2016