Se Di Maio è tantalizzato dalla maledizione del congiuntivo (e non solo il congiuntivo), non è che i giornalisti dei talk show che si divertono e lo deridono sono più ferrati in italiano. Martedì sera Giovanni Floris – quello noto per non fare parlare mai i suoi ospiti e che comunque parla più di loro – se ne è uscito, rivolto a Travaglio, l’uomo che sa tutto come Maria Maddalena, con questa frase: “I moderati del centrodestra non possono che rifùggere le teorie dei cinquestelle?”. Lo stesso Travaglio, che non è certo un’aquila, è rimasto per qualche secondo perplesso, poi ha fatto finta di niente.
Il problema è di fondo, per usare un termine giornalistico: viviamo un’epoca in cui i modi di espressione non sono intesi, secondo la teoria di Cicerone, come forme della personalità e richiesti come metodi di eloquenza e persuasione, ma sono diventati meri strumenti di comunicazione e, perché tali, metri di misurazione della capacità intellettiva. Così uomini che “sanno parlare”, nel senso che parlano molto e in maniera fluente, come lo stesso Travaglio, Renzi, Grillo, Berlusconi, Bersani e via contando, appaiono vincenti e preferibili rispetto ad altri che magari sanno scrivere, sono più colti e sono capaci di riflessioni più profonde e degne di essere recepite. L’idea oggi imperante nel sistema di relazioni politiche retto dalla televisione è però che valga più sapere stare davanti alla telecamera che dire cose sensate. Storica la domanda che Giuliano Ferrara fece a un ospite prima della trasmissione: “Scusi, ma lei sa parlare?”, domanda rivolta a uno che di fronte a Ferrara era un gigante solo per i libri che aveva scritto. Storica è anche diventata la sfida in tv tra Renzi e Zagrebelsky: il primo un giovanotto alla Julien Sorel, senza arte né parte, il secondo un costituzionalista e uno studioso di primissimo piano: il primo risultò vincitore di gran lunga sul secondo nel gradimento non solo del pubblico ma anche dello stesso Mentana, che era il conduttore, al quale interessava l’audience e dunque lo spettacolo invece che il ragionamento e la competenza. Tutti ricordano la prontezza e il fastidio di Maurizio Costanzo quando zittiva gli ospiti che si permettevano una citazione colta, vista come pedanteria e non come argomentazione. Oggi la sola citazione gradita è l’uso dei paragoni che fa Maurizio Crozza. I tempi sono questi. Nei quali giocoforza, se il pensiero unico impone uno stile basso, appunto televisivo, perché un dibattito sia innanzitutto uno spettacolo, tutti i talk show si assomigliano e si rincorrono nella selezione degli ospiti, sempre gli stessi perché sempre gli stessi sono quelli capaci di “parlare” senza magari dire niente o dirla male. E tuttavia gli ospiti sono migliori dei conduttori, nessuno escluso. Da Bianca Berlinguer (la conduttrice televisivamente più negata della storia) a Massimo Giletti (quello che vuole fare giornalismo d’inchiesta ma ha il terrore delle querele: come un chirurgo che tema il sangue), da Bruno Vespa (il solone onnisciente) a Corrado Formigli (il vagheggino onnipresente) a Lilly Gruber (la bellona che non trova mai le parole), non ce n’è uno che valga la pena ascoltare e che sappia davvero parlare. I dibattiti più interessanti sono quelli che propongono Rai 5, Tele 2000, Sky su temi scientifici, culturali, di approfondimento e di idee. Ma non fanno ascolti perché la televisione è un mezzo di massa e la massa ama il circo se non è educata ad amare il foro.
Si spiega allora il crollo di ascolto dei talk show, un genere che lo stesso Santoro (che pure insiste a sperimentare nuove formule nella febbre di trovare la pezza giusta) dichiarò morto. La seriosità, la boriosità, la ripetitività, la saccenza che ostentano i conduttori, sempre pronti a dimostrare di saperne una in più, hanno finito per stancare i telespettatori, che seguono i talk solo per assistere a qualche scontro verbale tanto per vedere chi ha la meglio e non chi ha ragione. Piacciono dunque gli Sgarbi, le Santanché, i Salvini (che si è fatto un nome e un partito in televisione prima che in piazza), i Travaglio, i Sallusti e quanti sanno individuare degli avversari e colpirli: tutti nel giro di un grande spettacolo dove ognuno recita un ruolo e porta la maschera così da rendersi riconoscibili e amati come gli attori da un pubblico che non ha nessuna intenzione, stando davanti al televisore, di fungere da popolo e o da insieme di cittadini. Nel tempo dell’intrattenimento, la regina alla fine è Barbara D’urso, che magari non sa dov’è Siracusa ma almeno non ha quella prosopopea dei conduttori tromboni. E finora non ha detto “rifuggere”, il che è tanto.
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