È durata tre giorni la vittoria definitiva di Mario Draghi che con un’operazione di creazione di moneta senza precedenti aveva dato l’impressione di essere riuscito nell’impresa di aver messo definitivamente in “sicurezza” un’unione monetaria vittima delle proprie stesse contraddizioni. Tre giorni solo e da Atene, l’epicentro della crisi della moneta unica da cinque anni a questa parte, è arrivato forte e chiaro il segnale di una risposta uguale per intensità e opposta per la direzione: l’Europa non è fatta solo di banche e una banca – per quanto centrale – non può salvarla. Draghi rappresenta, probabilmente suo malgrado, la speranza o l’illusione che quest’Europa può ancora salvarsi con l’ennesimo coniglio uscito dal cappello magico di un leader, l’unico che gli è rimasto, che, per mestiere, dovrebbe fare un lavoro molto più “normale”. Syriza manda in frantumi quella speranza e ricorda all’Europa che si esce solo con un lavoro quotidiano tra le persone, con un cambiamento radicale che le coinvolga, con una ristrutturazione di un modello sociale ormai non più adeguato.
E’ sbagliato, persino, appiattire la questione della Grecia a quella della critica all’austerità o all’Europa. O interpretarla con le categorie della Sinistra o della Destra. Ad Atene in questi giorni nasce – ancora molto confusa – l’idea che la politica, la democrazia possa essere qualcosa di molto diverso da quel simulacro a cui queste parole sono ridotte. Da Atene nasce una domanda di cambiamento che, peraltro, la società greca sta già sperimentando di fronte alla crisi. E che in un Paese come l’Italia non è, sostanzialmente, neppure cominciato. Ed allora c’è da chiedersi se non ha ragione il grande avversario di Mario Draghi, quel Jens Weidmann, governatore della Bundesbank, che dice che il grande pericolo del “quantitative easing” può essere un segnale che viene interpretato come alleggerimento sull’assoluta urgenza di portare avanti riforme che siano davvero strutturali. Indubbiamente – e questo Draghi lo sa benissimo quando parla di “azzardo morale” – il “quantitative easing” è, per definizione, una misura iniqua presa per scongiurare pericoli più grandi (e non è detto che un tasso di inflazione vicino allo zero lo fosse abbastanza). Iniqua perché spalma su una società (almeno in parte) la responsabilità del debito di alcuni debitori ed, in questo caso, di un solo debitore: lo Stato.
Ha però torto Weidmann quando parla solo di Italia e di Francia come soggetti che devono cambiare o quando sembra implicare che sia la Germania a dover giudicare. Ed, invece, è tutta l’Europa che dovrebbe sentirsi sotto esame. Perché è tutta l’Europa, compresa la Germania, che sta fallendo nella sfida alla modernità. È tutta l’Europa che continua a blaterare – nei suoi documenti strategici – di voler diventare società basata sulla conoscenza (cosa indispensabile per sopravvivere nel 2015) e poi a spendere due volte più in pensioni che in scuola. Forse al bazooka di Draghi non c’era alternativa. Ma Syriza ricorda che se adesso non mettiamo il “turbo” al cambiamento profondo – un cambiamento che davvero non guardi più in faccia a nessuno dei privilegiati, un cambiamento dei nostri comportamenti, così come della composizione della spesa pubblica – quel bazooka rischia di essere sparato “tra i nostri piedi” (come avverte acido The Guardian) o tutt’al più solo metadone per una società che, invece, deve – questo è vero senz’altro per l’Italia – ancora cominciare a mettersi sul serio in discussione.