ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

Dietro le quinte della vicenda Toti, l’uso politico della giustizia

La vicenda Toti, “governatore” della Liguria, presenta tre facce: il finanziamento della politica, il ruolo della magistratura, l’uso politico della giustizia.
Fino al 1974 i partiti si autofinanziavano, raccogliendo soldi dagli iscritti, dalle aziende pubbliche statali/locali o da Stati esteri.
L’esteso fenomeno di corruzione che ne derivò e la turbativa di mercato politico spinse i partiti a far approvare la Legge n. 195/1974 – detta “Piccoli”, dal nome del primo firmatario – che stabilì che lo Stato li avrebbe finanziati direttamente.
Integrata con altri provvedimenti successivi, la Legge prevedeva una forma di contributo statale per il funzionamento ordinario dei partiti e un’ulteriore forma di contributo a titolo di rimborso per le spese sostenute per le elezioni politiche, europee e regionali.
Il provvedimento non pose fine alla corruzione. La caduta del Muro di Berlino nel 1989, la conseguente crisi del sistema politico italiano, che aveva quel Muro quale portante dell’intero edificio, la crisi di Tangentopoli, il dibattito già aperto sulla nuova legge elettorale – sarebbe approdato al Mattarellum delle leggi n. 276 e 277 del 4 agosto 1993 – portarono al referendum popolare del 18 aprile 1993, che abolì il finanziamento statale ordinario dei partiti.
L’unica forma di contributo da parte dello Stato rimase il rimborso delle spese elettorali, definito nella Legge 515/1993, poi nella Legge 43/1995 e in fine nella Legge 157/1999, che stabilì i rimborsi, ripartendoli in quattro fondi, corrispondenti agli organi da rinnovare: Senato della Repubblica; Camera dei deputati; Parlamento europeo; Consigli regionali.
Da ultimo, nella Legge 96/2012 furono previsti i finanziamenti dei privati a partiti, movimenti e singoli esponenti politici, ma anche contributi statali agli organi ufficiali di informazione dei partiti ed agevolazioni fiscali.
Sotto la pressione crescente del movimento populista-grillino, la suddetta Legge ha stabilito un diverso meccanismo di ripartizione dei fondi tra i partiti e che una parte dei fondi potesse essere utilizzata non solo per spese elettorali, ma anche per le attività istituzionali, ma ha ridotto ulteriormente l’ammontare di tali fondi a 91 milioni di Euro.
Ma il Decreto-legge n. 149 del 28 dicembre 2013, convertito dalla legge n. 13 del 21 febbraio 2014, ha abrogato definitivamente il finanziamento pubblico dei partiti, ma solo a partire dal 2018. Però l’art. 4 del Decreto introdusse la possibilità del versamento del 2 per mille a favore dei partiti.
L’eliminazione dei contributi pubblici ai partiti e l’introduzione di vincoli quantitativi e di trasparenza alle donazioni private hanno provocato una forte crescita di Fondazioni e Associazioni, create dai leader politici per finalità para-politiche. Così la Fondazione Italiani-Europei di D’Alema, la Fondazione Open di Renzi, Magna Charta e altre similari.
Poiché inizialmente non erano regolamentate, il Decreto-legge 3/2019 ha stabilito norme anche per le Fondazioni politiche, che in base a certi criteri sono equiparate ai partiti per obblighi di trasparenza e di rendicontazione.
Toti è innocente, fino a prova contraria
Toti ha violato le leggi di finanziamento privato dei partiti? L’accusa sostiene di sì, la difesa dice di no, perché tutti i finanziamenti sarebbero stati tracciati a norma di legge.
Noi cittadini-elettori non siamo in grado di rispondere a quell’interrogativo. Occorre attendere che il giudizio si svolga in tutti i suoi gradi. Al momento la colpevolezza di Toti non risulta provata e, pertanto, non deve – non doveva – dimettersi dalla carica di “Governatore”.
D’altronde, prima di un eventuale intervento della magistratura, sarebbe dovuto scattare quello della “Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici”, prevista dalla Legge 175/2015 al fine di assicurare il controllo dei bilanci dei partiti politici.
E i magistrati? Hanno ostinatamente tenuto Toti agli arresti domiciliari, nella previsione che, lasciato libero, avrebbe continuato a “delinquere”. Così che avrebbe potuto riguadagnare la libertà personale solo se si fosse dimesso dalla sua carica.
Se alcuni commentatori di destra hanno accusato la magistratura di sovraesposizione politica e di misure ricattatorie, quelli di sinistra – salvo “L’Unità” di Piero Sansonetti, “Il Riformista” di Claudio Velardi e il piccolo PSI – hanno finito per allinearsi al discorso solo e tutto politico sull’inopportunità di tenere agli arresti domiciliari con Toti un’intera Regione.
Difficile per un estraneo all’inchiesta distribuire ragioni e torti. Ma, per esempio, il redivivo Antonio Di Pietro – seguace storico della teoria di Davigo, per la quale tocca al cittadino dimostrare la propria innocenza e non al magistrato provare la sua colpevolezza – ha dichiarato che i magistrati liguri stanno sbagliando, perché è fattualmente impossibile che Toti possa continuare a delinquere, una volta rimesso in libertà.
L’uso politico della giustizia in un Paese anormale
Due fatti, tuttavia, sono certi. Il primo: Giovanni Toti è fino ad oggi innocente, tocca all’accusa dimostrare che è colpevole. Il secondo: tutta la politica italiana – eccetto forse, questa volta, Salvini – ha finito per chiedere le dimissioni di Toti da “Governatore”, a dispetto del proclamato garantismo.
Escluso Renzi, la sinistra intera, in modalità “campo largo”, ha invocato le superiori ragioni della Regione, in realtà della politica; idem la destra, perché aspira a sostituire Toti con propri uomini fidati.
A turni alterni sinistra e destra si accusano di giustizialismo, cioè di usare le accuse e gli avvisi di garanzia per distruggere gli avversari. È ormai evidente che il giustizialismo è diventato la continuazione della politica – di sinistra e di destra – con altri mezzi. Si tratta di una democrazia illiberale. L’album di famiglia è quello di Orban.
Di qui l’isolamento politico in cui è stato gettato Toti dalla destra. Si tratta di un politico centrista, politicamente debole e solo, figlio di nessuno.
È stato eletto il 31 maggio 2015 alla Presidenza della Regione Liguria e una seconda volta nel 2020; è stato consigliere politico di Berlusconi, europarlamentare, e dal 19 giugno al 1º agosto 2019 anche coordinatore nazionale di Forza Italia. Da cui si distacca per fondare “Cambiamo”, per poi fondare “Coraggio Italia” insieme al Sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Nel 2022 confluisce in “Italia al Centro” e nel 2023 in “Noi moderati”.
D’altronde, i risultati delle elezioni politiche del 2022 in Liguria non gli lasciano scampo. A destra: FdL 24,3%, Lega 9,3%, Forza Italia 6,4%, Noi Moderati con Toti e Brugnaro 2,1%. A sinistra: PD 22,7%; M5S 12,7%; Azione/Italia viva 7,4%.
A questo punto il “moderatissimo” Toti si è arreso. La politica ha fatto uso politico di un processo giudiziario, solo agli inizi, per regolare sempiterni conti reciproci. E se Toti risultasse innocente? Peggio per lui. È già accaduto ad altri.
L’importante è che il partito mostri al popolo le mani nette. Il “popolo” dei militanti è felice. Ma i cittadini, che continuano a credere nell’Habeas corpus, fuggono da questa politica.
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