ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

DEMOGRAFIA E IMMIGRAZIONE

da LINKIESTA
8 GIUGNO 2021
GIOVANNI COMINELLI

Integrazione culturale Per arginare la crisi demografica serve una politica economica e civile dell’immigrazione
Nel corso dell’ultimo anno, l’Italia ha perso 400 mila abitanti, con i morti superano i nati di 350 mila unità. C’è quindi bisogno di una chiamata diretta dell’immigrato per far fronte ai bisogni del mercato del lavoro senza dimenticare la salvaguardia della nostra identità

Il Rapporto Istat 2021 ci informa che nel corso dell’ultimo anno l’Italia ha perduto 400 mila abitanti e che i morti superano i nati di 350 mila unità. I morti per Covid sono arrivati a 127 mila. Sono numeri da Terza guerra mondiale, parola di Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat. Il nostro tasso di natalità è arrivato nell’ultimo anno a – 24%. Siamo sulla via del Giappone. Se l’aspettativa di vita di un neonato giapponese arriva oggi a 107 anni, il Paese perde 500.000 abitanti all’anno su una popolazione attuale di 125 milioni di persone. Un segnale? I pannoloni per anziani sono di gran lunga più venduti dei pannolini per l’infanzia.

Come ha constatato, da ultimo, Mario Draghi: un Paese senza figli è destinato a declinare e a scomparire. I dati del mercato del lavoro ci avvertono, intanto, che la ripresa post-Covid è segnata da una mancanza di forze di lavoro in tutti i settori-chiave, dal primario al terziario. Manchiamo di manovali, spazzini, baristi, bagnini, autisti di camion, apprendisti artigiani, idraulici, elettricisti, muratori, pastori, agricoltori, di impiegati, badanti, infermieri, medici di base, anestesisti, tecnici, ingegneri…

C’entra qualcosa questo discorso con la decisione cinese di allargare fino a tre per coppia i figli generabili? Nel 1949, anno della proclamazione della Repubblica popolare, i Cinesi erano circa 600 milioni. Mao tse-tung lanciò un biblico e furioso «crescite et multiplicamini». Furono proibiti l’aborto, la sterilizzazione e i metodi contraccettivi. Così nel 1979 i Cinesi arrivavano già al miliardo.

Oggi sono 1 miliardo e 444 milioni. Convinto che l’economia cinese non sarebbe stata capace di nutrire questa massa, Ten-Tsiao Ping introdusse nel 1979 “la legge del figlio unico”, possibilmente maschio, che fu attuata in forme brutali. L’esercito passava nella sterminata campagna cinese a rastrellare le donne incinte per portarle in ospedale ad abortire. Nelle fabbriche, esse dovevano riferire al capo-reparto le vicende del loro ciclo. Se incinte e già madri, dovevano scegliere tra un nuovo figlio o il posto di lavoro, con relativo aborto.

Questa politica ha portato oggi alla crisi demografica cinese: i giovani cominciano a scarseggiare, gli anziani diventano sempre più numerosi, le donne devono essere “importate”.

Se a Malthus era sembrato che la crescita demografica sopravanzasse fatalmente le capacità dell’economia, oggi si prevede, al contrario, che la crisi demografica delle tre regioni più ricche del mondo – Nord America, Europa, Estremo Oriente – non sarà più in grado di alimentare la crescita economica. Gli Stati Uniti hanno raggiunto il picco dei 330 milioni e di qui, prevedono i demografi, incominceranno a scendere.

Resta l’enorme bacino africano, destinato ai 2 miliardi e mezzo entro il 2050. Ma, anche qui, i processi di un’urbanizzazione violenta e selvaggia sono destinati a ridurre il tasso di fertilità, da Lagos a Nairobi, al Cairo. Nonostante le previsioni catastrofiche dell’aumento della popolazione globale, il 2040 si prospetta come l’anno del picco della specie umana. Il che è come dire che rischiano di venir meno le basi biologiche della continuazione della specie e dello sviluppo umano. Previsione, questa, ancor più catastrofica.
Queste tendenze mondiali – ripeto – c’entrano con noi? La predicazione sovranista e nazionalista ci ha raccontato in questi anni la leggenda di un’Italia minacciata ai suoi confini da orde di barbari, che mettono alla prova la nostra civiltà. In realtà, le nostre minacce esistenziali provengono dall’interno: dalla natalità tendente allo zero e dall’emigrazione dei nostri giovani fuori dai confini.
I nostri ragazzi/giovani rifiutano ormai i lavori a bassa qualificazione e i lavori pesanti. Senza questa forza lavoro, il Paese perde capacità produttive e perciò declina.

Per non essere travolti abbiamo davanti solo tre strade. La prima: fare figli. Tuttavia, anche se dovessimo passare da 1,3 a 2 figli per donna da subito, servirebbe qualche decennio per ripristinare l’equilibrio nati-morti. Nel frattempo saremo morti! Ma, in ogni caso, che i nostri figli e nipoti si mettano a fare figli appare irrealistico, anche se introducessimo da subito – come dovremo comunque fare – forti misure a favore della conciliazione tra lavoro e maternità.
La seconda strada: investire fortemente nella robotica, nelle connessioni digitali, nell’intelligenza artificiale, cioè nelle tecnologie che consentono di sostituire la forza-lavoro umana. Ma c’è un limite: perché, comunque, servono scienziati, tecnici, esperti progettisti che siano giovani, capaci di inventare e di gestire.

La terza strada è quella di una politica economica e civile dell’immigrazione. Essa significa: chiamata diretta dell’immigrato, in relazione ai bisogni del mercato del lavoro e integrazione culturale.

Intanto, economica. Da questo punto di vista la ricetta danese non pare così assurda. Riprende, d’altronde, una formula, applicata già dal Belgio nei confronti dell’Italia alla fine degli anni ‘40: stock di immigrati in cambio di tonnellate di carbone. E dalla Svizzera già dagli anni ’50, almeno per quanto riguarda i rapporti con l’Italia: istituire dei Centri di reclutamento della forza-lavoro sul posto di origine dell’immigrazione. Perché non farlo oggi nei Paesi di immigrazione?

Civile. Benché le generazioni più anziane si sentano minacciate nella loro identità culturale, è proprio questa la posta in gioco: come salvare una storia, una civiltà, una lingua? Solo facendole camminare sulle gambe delle generazioni più giovani. A chi passare il testimone, se i figli e i nipoti delle generazioni più anziane dell’Occidente ricco e sazio hanno smesso di generare figli?

Il suprematismo bianco è finito da tempo. I “bianchi” sono una minoranza della specie. Trump è stato il canto del cigno… nero. Si tratta di vedere se vogliamo che la nostra civilizzazione abbia ancora qualcosa da dire in questa nuova storia dell’umanità. Integrazione vuol dire lingua italiana, in primo luogo, e perciò cultura, monumenti, storie. Chi non vuole integrarsi, va espulso.

Viene in questi giorni dalla Svizzera una notizia interessante. Il 6 giugno si è riunito a Berna un Parlamento dei rifugiati, organizzato dal National Coalition Building Institute (NCBI), al quale hanno partecipato alcuni membri del Consiglio Nazionale e di alcuni Cantoni, oltre ai rappresentanti di Caritas, di Terre des Hommes Svizzera e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *