Cosa potrà mai fermare la marea montante del populismo che minaccia la salute già precaria del vecchio Continente?” Sembra questa la domanda che – come un fantasma – agita i sonni della classe dirigente di buona parte dei Paesi Europei. Classi dirigenti che stentano a trovare risposte. Così come a proporre soluzioni convincenti ad una qualsiasi delle crisi che stanno divorando tutte le nostre sicurezze. Sicurezze che ci fanno, peraltro, usare strumenti vecchi per problemi nuovi e affogare ancora di più nell’impotenza.
La crisi dell’euro dalla quale non siamo ancora usciti, riforme che non sono mai sufficienti e la sensazione di dipendere – quasi esclusivamente – dalle terapie intensive dei banchieri centrali. Tecnologie che promettono miracoli ma che, al momento, trasformano buona parte della crescita economica in incrementi di produttività e rischiano di cancellare milioni di posti di lavoro nei servizi. Migrazioni che mettono a nudo quanto poca leadership è rimasta all’Unione nel gestire anche solo il nostro vicinato e quanto siamo psicologicamente vulnerabili. Diseguaglianze crescenti e, ancor più rilevante, una classe media che sta – dalla Grecia agli Stati Uniti, dalla Spagna al Regno Unito – semplicemente scomparendo, anche dove la crescita appare consolidata. Un’informazione che è esplosa diffondendosi ovunque e ponendo alla democrazia rappresentativa e ai media (che ne sono una componente fondamentale) una sfida che potrebbe essere mortale. Una disoccupazione che si è concentrata quasi esclusivamente sui giovani generando una distruzione di capitale umano che peserà per decenni. E, come risultato finale, un “centro” della politica – quello dove si vincevano una volta le elezioni – che appare sempre più piccolo, mentre quella che era la minoranza fisiologica degli esclusi, è, ormai, diventata – tra astensioni e populismi – maggioranza. Rumorosa, peraltro.
Lo “shock del nuovo” era questo il titolo della conferenza organizzata dal British Council che si è tenuta alla certosa di Pontignano vicino Siena e che quest’anno era dedicata proprio al rapporto conflittuale tra establishment e chi fa promesse (spesso non mantenute) di sovvertire il sistema. Il tutto osservato dal punto di vista – diverso, ma non tanto – di chi prova a leggere e governare mutazioni complesse in Italia e nel Regno Unito. E, dunque, attraverso il confronto tra esperienze diverse – quella di Jerome Corbyn appena diventato leader del partito laburista e del movimento cinque stelle, ma anche di fenomeni simili che, quasi dovunque, stanno ponendo problemi veri, nuovi per i quali sembrano essere disponibili quasi solo risposte vecchie.
Gli Stati Uniti e il Regno Unito sono, di nuovo, tra le economie più forti del mondo. Hanno, a differenza dei Paesi dell’area Euro, recuperato, già da qualche tempo, i livelli di PIL che facevano registrare prima della crisi del 2007 e, viste le incertezze della Cina, del Brasile e della Russia, stanno facendo da locomotiva per gli altri. E, tuttavia, in entrambi i Paesi gli istituti nazionali di statistica dicono che il reddito di una famiglia media è ancora inferiore a quello di dieci anni fa. La crescita sta arricchendo chi era già ricco e creando lavori precari per chi era al margine: è la classe media, l’architrave su cui si poggia un qualsiasi sistema politico stabile, che sta soffrendo e la conseguenza è che se anche fosse vero che Corbyn o Sanders non sono eleggibili dal centro, ciò potrebbe essere irrilevante visto che il centro si sta spostando verso gli estremi.
Ma sarebbe stupido – ha ricordato qualcuno dei delegati alla conferenza di Siena capovolgendo ciò che diceva Clinton – immaginare che è fatto di sola economia, il problema del distacco tra classe dirigenti e “popolo” e più in generale di frammentazione della società in tante enclavi. Il problema è – direbbe uno studioso della conoscenza – soprattutto cognitivo. Ci è sfuggito di mano il mondo e manca qualcuno che proponga una teoria di dove stiamo andando. I partiti politici non sono più in grado di esprimere una visione perché non “studiano” più e non parlano con le persone. Jerome Corbyn vince in un Paese ultra avanzato come il Regno Unito e Varoufakis affascina perché riempiono il vuoto proponendo una teoria che ha il difetto di essere stata concepita per un mondo che è scomparso duecento anni fa e di essere fallita, ma il pregio di esprimere un’ambizione. Un’ambizione che un governo delle cose assolutamente incrementale e per aggiustamenti non riesce più fare.
Certo a salvarci non saranno né i sindacati, che a Londra hanno eletto il nuovo leader di uno stremato Labour Party, perché anche essi sono diventati centri di potere preoccupati esclusivamente della propria sopravvivenza. Né le nazionalizzazioni di imprese e banche centrali che rischiano di sostituire solo alla corruzione delle imprese quella ben più perniciosa dello Stato. E neppure tassare di più chi rischia, come vorrebbe Bernie Sanders che sta contendendo a Hillary Clinton la possibilità di sfidare i Repubblicani anch’essi in rotta verso l’estremismo, per non uccidere la voglia d’impresa che anche il Papa – che ha fatto della lotta alla disuguaglianza la sua bandiera – indica come via più sostenibile per includere tutti.
Dalla crisi che è crisi di democrazia nasce, in effetti, un’opportunità. L’opportunità – nel Regno Unito così come in Italia e in Europa – per un radicalismo progressista che, dopo i tentativi della stagione di Obama e di Blair, non trova ancora scuole, luoghi e leader sufficientemente forti ed innovativi. Se riusciremo a includere – che è nozione economica, ma non solo – , a includere in un progetto di cambiamento che riesce solo se mobilita tutti, avremo trovato la formula che può aprire un ciclo politico capace di durare per i prossimi vent’anni.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 5 Ottobre