Da LINKIESTA
Buio pesto La fine del M5s poteva essere un’opportunità per la sinistra, invece è un problema
Sabato 3 luglio 2021
Giovanni Cominelli
Le convulsioni dei Cinquestelle farebbero pensare a un Partito democratico finalmente in grado di pensare con la sua testa, con idee nuove e un aggancio alla realtà. Invece, per ora, resta a guardare il suo alleato in piena autodistruzione, senza muovere un dito, impantanato nella stessa palude ideologica delle forze populiste
Si sta consumando, dunque, il ciclo del populismo politico-parlamentare, durato più di dieci anni, se si contano i giorni a partire dai primi Vaffa-day. Quanto a quello che scorre carsicamente nella società civile, esso ha perduto, per ora, solo una forte rappresentanza, ma continua a ribollire nel profondo del Paese, soprattutto nel Centro-Sud.
All’origine della catena populista sta il fallimento finale del sistema politico-istituzionale della Prima Repubblica e della sedicente Seconda. Inutile e poco onesto intellettualmente continuare a ricercare le cause del populismo in un’irreversibile e fatale deriva antropologica degli italiani.
La caduta della classe dirigente, che pure era stata forgiata nei partiti del Cln, ha prodotto le proposte peggiori al Paese e… «lo sventurato rispose». E poiché il peggio – l’amore per le scorciatoie autoritarie e per le dittature, l’antiparlamentarismo, il carismatismo volgare e straccione, il reddito di cittadinanza, il cashback, il giustizialismo, la deresponsabilizzazione propria e la colpevolizzazione altrui, l’uso violento dei social, la profluvie di fake-news, il disprezzo del sapere – la vince sempre sul bene, poiché sempre la moneta cattiva scaccia quella buona, allora i leader di partito e i partiti sono corsi al peggio, in cambio di voti.
Per governare meglio? No, per usufruire qui e ora di maggior potere, qualsiasi cosa stia nascosta sotto questo lemma: prestigio sociale, comparsate televisive, sentirsi al centro del mondo, distribuire denaro e benefici. Potere, non governo.
Il governo è un lusso che i partiti non si possono permettere, non hanno il tempo di risolvere i problemi. La politica è diventata sempre più di una fibrillazione permanente, mentre il mondo “là fuori” stava diventando un luogo pericoloso.
C’è da meravigliarsi se i cittadini esasperati abbiamo puntato sul più facile – evitare di lavorare, campare di sussidi, non pagare le tasse, economia in nero – quando la classe dirigente davanti a loro glielo ha proposto? E che si siano affidati ad un guitto urlante e volgare? Ora, davanti alla deflagrazione tragicomica del Movimento 5 stelle, siamo ancora fermi al bivio governo/potere, che si aprì dopo i fallimenti seriali delle formule politiche successive alla crisi del centro-sinistra e alla fine della solidarietà nazionale, all’inizio degli anno ’80: continuare a (s)governare o costruire nuove istituzioni di governo e, conseguentemente, un nuovo sistema politico?
Da allora in poi, nel cielo della politica sono passate molte comete, dalla coda più o meno lunga e luminosa, ma nessuna è riuscita a posarsi sulla stalla buona.
Qualcuno ha fornito loro un’alternativa? Non si intende, qui, quella tra destra e sinistra, ma quella tra una democrazia s/governante e una democrazia governante/decidente.
La fine del Movimento 5 stelle, per come lo abbiamo finora conosciuto, interpella tanto la destra quanto la sinistra, per due motivi. Primo: perché sta davanti ad ambedue gli schieramenti la crisi politico-istituzionale della Seconda Repubblica – cui Mattarella-Draghi stanno fornendo un prezioso, ma solo occasionale pit-stop – che non può che uscire aggravata dal collasso del partito, che in Parlamento raccoglie più del 32%.
Secondo: perché i due poli (?), in tempi diversi, hanno allegramente e irresponsabilmente messo su dei governi con il Movimento. E se Salvini ha rotto dopo un anno – o è stato cacciato – il centro-sinistra invece è stato felice di prenderne il posto. Con una differenza: che Salvini ha usato il Movimento per i propri fini, mentre il Partito democratico è stato usato a fini dei Cinquestelle.
Peggio: il Partito democratico ha inventato giustificazioni storico-destinali sulla futura immancabile redenzione dei Cinquestelle, cui bisognava applicare il forcipe intelligente di comunistica tradizione.
Ci si è messo anche Gianni Orsina, un politologo storico liberale: «Romanizzare i barbari». Per Zingaretti era possibile anche convertirli, cioè “sinistrizzarli”. E sulla stessa linea ha proseguito Enrico Letta.
E ai pochi riformisti – ma non quelli silenti e complici del Partito democratico – che obbiettavano mari e monti veniva risposto con sufficienza che erano settari tardo-giacobini. Una volta ogni tanto a sinistra compare la teoria della costola. Ora la costola della sinistra era il Movimento 5 stelle, beninteso a sua insaputa. Secondo un’inveterata tradizione, la coscienza viene sempre importata dall’esterno, piaccia o no. Come un vaccino.
Ciò che continua ad allarmare ogni liberal-democratico e liberal-socialista, a questo punto, non è tanto il vuoto desolante della batracomiomachia Grillo-Conte – solo chi soffre di percezioni extra-sensoriali poteva aver sentito di differenze di politiche e di programmi – quanto il vuoto pneumatico dei dem.
Perché tanta preoccupazione? Perché la stragrande maggioranza delle forze del centro-destra non è affatto liberale, né per quanto riguarda la collocazione geopolitica dell’Italia né per quanto riguarda la politica economica.
Assistenzialismo, protezionismo, statalismo, nazionalismo, provincialismo sono le caratteristiche principali del centro-destra di Salvini e Meloni. Ma il guaio è che il Partito democratico, a sua volta, sta con i piedi a mollo nella stessa fanghiglia, al netto apprezzabile della scelta europeista. Quale che ne sia il colore – giallo, verde, rosso – sempre palude è.
Si sperava che lo spettacolo tragicomico del Movimento 5 stelle inducesse il Partito democratico a pensieri di saggezza – no, l’autocritica no, non vogliamo chiederla, non è liberale. È liberale però la verifica empirica dei paradigmi fallimentari e la costruzione di nuovi. Ma, finora, solo uno stordito silenzio.
Eppure Mario Draghi i nuovi paradigmi li sta praticando, con successo. Salvini se n’è accorto; i due terzi del Partito democratico, a partire da Letta, non ancora. Il quale si trova prigioniero di un groviglio strano: Conte, l’interlocutore privilegiato, non ama Draghi, mentre Grillo ci ha puntato.
Le convulsioni del Movimento 5 stelle promettono contraddizioni, sorprese e rovesciamenti, muovendosi appunto nel vuoto. A maggior ragione ci si aspetterebbe che il Partito democratico avesse da subito una propria limpida idea, un aggancio alla realtà. Per ora, nebbia.