Non prestate credito a chi dovesse dirvi che Io, Daniel Blake è «il solito Ken Loach». Andate a vederlo, anzi correte perché esce oggi nelle sale italiane dove, a occhio e croce, non resisterà più di una settimana (la divaricazione tra cinema d’autore e pubblico è ormai disastrosa). Premiato con la seconda Palma d’oro a Cannes pochi mesi fa, a dieci anni dalla prima vinta con Il vento che accarezza l’erba, l’ottantenne Loach certamente non si smentisce rispetto al protagonismo/antagonismo del proletariato, cui è da sempre votato il suo cinema. Ma stavolta Ken il Rosso riserva una vena di tenerezza per il protagonista eponimo, e, quasi, di senile rassegnazione rispetto all’ingiustizia che regna sovrana nella Gran Bretagna al tempo della Brexit.
Siamo a Newcastle e Daniel Blake è un carpentiere sui sessanta reduce da un infarto, cui i medici hanno vietato di riprendere a lavorare. Sebbene malvolentieri, decide di fare domanda per la pensione di invalidità e cercherà di ottenere l’assegno di assistenza, tenacemente ostacolato da una ottusa e crudele burocrazia 2.0. Daniel infatti non sa usare il computer né compilare un curriculum vitae dalle regole ineludibili. E aggiungiamo che il CV «modello europeo» è uno dei motivi della dilagante antipatia popolare per l’Europa… Così il Nostro si ritrova iscritto a un corso per imparare a scrivere un curriculum, dove ogni eventuale assenza procura una sanzione!
La via crucis laica del Citizen Blake («Sono solo un cittadino») è mitigata dalla solidarietà di altre persone che vivono ai margini, come il vicino di casa nero detto «China» (Kema Sikazwe) per i suoi traffici di scarpe con l’Estremo Oriente. Il che smentisce il teorema dell’immigrazione come guerra tra poveri, caro alle destre.
Soprattutto, Daniel – vedovo e senza figli – troverà una ragione di vita nell’aiuto che offre a una trentenne con due bambini, Katie, appena arrivata in città da Londra, con sofferte separazioni alle spalle e l’abbandono degli studi universitari. Katie è sola, disperata, affamata. Si dichiara inappetente pur di cedere un piatto di pasta, occasionalmente ruba in un supermercato e arriva a farsi irretire da una miserrima agenzia di escort.
Blake non ha la forza di salvarla e lei non salverà lui, ma tra loro s’instaura una solidarietà fatta di dolcezza reciproca o un «mutuo soccorso» per dirla con una locuzione ottocentesca – mazziniana – del movimento operaio. Sia l’ideologia sia il melodramma non abitano qui.
Ecco, non è la lotta, ma la difesa di classe a prendere corpo nel film. Un apparente ripiegamento di Loach che è piuttosto un altro modo di resistere, di tentare di sopravvivere, magari di reagire. Fa testo la scena in cui Daniel Blake esprime tutta la sua indignazione su un muro con una bomboletta spray, improvvisato Banksy dei reietti, plaudenti intorno a lui, prima che venga arrestato. Un «Daniel B.» dei giorni nostri che a noi ricorda De Sica. Bello.
«IO, DANIEL BLAKE» di Ken Loach. Interpreti e personaggi principali: Dave Johns (Daniel Blake), Hayley Squires (Katie). Drammatico, Belgio-Gran Bretagna-Francia, 2016. Durata: 100 minuti
Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 21 ottobre 2016