È il petrolio che fa girare i motori del mondo: nelle conferenze internazionali, gli emiri e gli amministratori delegati delle grandi multinazionali dell’energia ricorrono, spesso, alla parafrasi di unafamosa canzone degli anni ottanta, per ricordarequanto centrale è stato l’oro nero negli equilibri dei sistemi economici e politici mondiali. E quanto sia forte la rendita di posizione di cui, da decenni, gode chi ne controlla l’estrazione e la distribuzione.
Oggi quell’oro,dopo aver perso più del 70% della sua quotazione in 18 mesi, vale meno di 30 dollari al barile; un litro di petrolio vale oggi, cioè, cinque volte meno di un litro di acqua minerale. A questi livelli quasi tutti i Paesi e le grandi compagnie petrolifere stanno di fatto producendo in perdita. E allora la novità – anche se non è la prima volta che il prezzo dei combustibili fossili scende a questi livelli nella storia – può essere davvero formidabile.
Per quanto tempo rimarrà, allora, a questi livelli il prezzo della materia prima che fa girare le pale della civiltà industriale? Può essere questo l’inizio di un processo che porterà alla rovina, i titani che fino all’altro ieri sembravano gli unici in grado di comprare squadre, banche, grattacieli che l’Occidente periodicamente deve vendere a prezzi stracciati? E cosa ne sarà delle compagnie che, ancora oggi, sono, di fatto, le più grandi multinazionali per fatturato e numero di dipendenti? E quali sono gli effetti che ciò può, paradossalmente, avere sulla stessa convenienza ad investire nella riconversione di un intero modello economico verso forme nuove di energia e di consumo?
Secondo alcuni, sul petrolio si sta consumando una drammatica partita a poker nella quale il giocatore più forte – l’Arabia Saudita e le altre potenze del golfo – si stanno giocando la sopravvivenza. L’idea è che i sauditi abbiano inondato il mercato di greggio, per far crollare il prezzo e mettere fuori gioco gli altri concorrenti, a partire dai produttori americani che utilizzando le tecnologie di trivellazione laterale hanno fatto degli Stati Uniti il primo produttore a livello mondiale. Può darsi che l’OPEC abbia immaginato di poter utilizzare il vantaggio di costo che ha nei confronti dei propri avversari per scatenare una guerriglia di costo; se così fosse il gioco gli è sfuggito di mano e rischia di mettere in discussione la stabilità di quei regimi: è vero che al di sotto dei 40 dollari al barile Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia e Canada estraggono in rosso; ma è anche vero che – secondo il Fondo Monetario Internazionale – la stessa Arabia Saudita ha bisogno di un prezzo al barile di 100 dollari per poter avere il proprio bilancio pubblico – che dipende, quasi interamente, dalle esportazioni di petrolio – in pareggio. A questi prezzi, la stessa quotazione dell’ARAMCO – la più grande compagnia petrolifera del mondo alla quale la monarchia saudita ha concesso i diritti di sfruttamento di pozzi che contengono quasi 300 miliardi di barili – potrebbe rilevarsi la più grande svendita della storia.
Non convince, neppure, chi cerca di spiegare l’andamento delle quotazioni con un crollo della domanda globale di energia. In realtà, se è anche vero che la crescita dell’economia mondiale sta rallentando, ciò non ha ancora avuto effetti significativi nell’arco temporale corto che ci separa dal Giugno 2014 quando il petrolio era ancora ampiamente sopra i 100 dollari: in questi ultimi diciotto mesi, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, sia la domanda che l’offerta sono aumentate di qualche punto percentuale e nessuna fluttuazione mensile aiuta a capire come i prezzi siano crollati senza paracadute.
E allora? Allora di sicuro il mercato – come sempre più spesso accade – sta incorporando nei propri prezzi sentimenti e previsioni sul futuro che non necessariamente sono razionali ma scontano l’aspettativa di movimenti che sono già in corso e che, con ogni probabilità, continueranno per altri anni.
Il punto è che ormai tutti si sono accorti che non possiamo più consentirci i costi ambientali e politici di un mondo che fu costruito su un modello che vede pochissimi produttori estrarre combustibili fossili che vengono poi distribuiti – attraverso una lunghissima rete – a tutti. Il blocco delle città italiane ed europee durante le ultime vacanza di Natale, dicono che non possiamo più continuare a spostare – come abbiamo fatto per un secolo –“cento chili di carne umana con oggetti che pesano una tonnellata”.
Non possiamo più dipendere da regimi autoritari che assicurano stabilità temporanee in cambio di tensioni permanenti. Gli Stati Uniti non possono più permettersi di fare da “cane da guardia” di un mondo sempre più esposto a forze centripete che le stesse tecnologie della comunicazione innescano. La Cina e l’India devono, urgentemente, invertire errori che ne hanno avvelenato lo sviluppo e ne compromettono la pace sociale. L’Europa si è resa definitivamente conto – confrontandosi con la Russia in Ucraina – di avere vulnerabilità che rischiano di farla implodere.
La crisi ha cambiato molte cose, in maniera irreversibile e ciò è particolarmente vero per le abitudini di persone ed organizzazioni. Nel 2005 l’Italia, ad esempio, importava – secondo ISTAT – energia equivalente a quasi 200 milioni di tonnellate di petrolio; oggi quel valore – è sceso di un quarto e questo risultato è quasi per intero determinato da maggiori efficienze (consumiamo sempre meno energia per ogni euro di prodotto interno lordo). Le tecnologie, del resto, stanno rendendo finalmente competitive fonti alternative al petrolio e, ad esempio, il litio – il metallo con il quale si stanno per produrre batterie molto meno costose e con molta maggiore autonomia – sta per sostituire il silicio dei semiconduttori, come il metallo che consentirà i progressi più spettacolari.
Il prezzo del petrolio, con ogni probabilità, si stabilizzerà attorno a livelli simili a quelli attuali quest’anno (nonostante il ritorno degli iraniani) e tornerà negli anni prossimi a livelli che consentano alle grandi compagnie petrolifere un riposizionamento graduale. Gli europei e, in particolar modo, gli italiani avvertiranno questi movimenti sempre di meno (del resto il prezzo della benzina – anche, ma non solo, per effetto delle tasse che sono fisse – è diminuito solo del 15%). L’economia europea ne risentirà positivamente ma non vi troverà un toccasana miracoloso. Il mondo, nel suo complesso, si accorgerà, un po’ alla volta, che sta facendo a meno del sangue che per decenni aveva fatto girare e crescere un modello economico che sta scomparendo.
Il nuovo mondo, quello che userà molto meno petrolio e automobili completamente nuove, ha contorni che non sono, però, ancora chiari: decisiva per la competitività di un Paese come l’Itala è riuscire a capirlo prima degli altri e governare la trasformazione prima di sviluppare una nuova dipendenza.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 18 Gennaio