Festeggia Paolo Virzì, alla guida da quest’anno del Torino Film Festival che ha adottato la formula di attribuire la direzione a noti registi (Moretti e Amelio i predecessori). La 31ª edizione si è chiusa nello scorso weekend: 92.000 spettatori rispetto ai 75.000 del 2012 e il 31% in più negli incassi. Il risultato premia una squadra esperta, capitanata dal vicedirettore Emanuela Martini, e conferma la bontà del meccanismo che affida questa e altre iniziative festivaliere al Museo Nazionale del Cinema diretto da Alberto Barbera. Il frequentato Museo nella Mole appare alieno dalla politicizzazione estrema vigente ad altre latitudini ed è in dialettica con una vivace trama di base. Un altro «storico» polo è poi costituito dalla Film Commission Torino Piemonte. Il Festival che a lungo si chiamò «Cinema Giovani» è privo di enfasi provincialistica e si inserisce, insomma, nell’orizzonte metropolitano di strutture e idee artistico-culturali, pubbliche e private, non arrendevoli al declino dell’ex città-fabbrica (c’era una volta la Fiat), sebbene la crisi morda anche qui. Così, per dirne una, la Scuola Holden di Alessandro Baricco si è da poco trasferita in una ex caserma-arsenale di Borgo Dora concessa dal Comune in cambio di uno splendido restauro funzionale, con l’intento di contribuire a rivitalizzare il quartiere del mercato del Balôn, non fra i più tranquilli.
I giorni torinesi hanno offerto alcuni preziosi segnali lungo le strade che il cinema va intraprendendo. Sono «strade blu», per dirla con William Least Heat-Moon che dedicò pagine memorabili ai percorsi poco battuti dell’America profonda, alle Blue Highways spesso esplorate giusto nei film della New Hollywood anni Sessanta-Settanta cui era dedicata la retrospettiva del festival a cura della Martini (proseguirà nel 2014).
I percorsi del cinema di domani, visti da Torino, sono ardui ma fecondi, riottosi alle definizioni e a qualsivoglia recinto. Grande e piccolo schermo si scambiano autori e stili, si contagiano ovunque tranne che nell’Italia delle fiction formato famiglia («mulino bianco» o «fratelli coltelli»). È il caso di due serie Tv viste in anteprima: il misterioso e affascinante giallo neozelandese Top of the Lake sulla scomparsa di una dodicenne incinta, firmata da Jane Campion e Garth Davis, e il serrato thriller politico House of Cards con Kevin Spacey e Robin Wright.
D’altro canto, dopo il Leone veneziano al documentario Sacro GRA di Gianfranco Rosi, si è decisamente riaperta la partita del cinema del reale o della memoria. Tragico e magnifico è Pays Barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, coppia di indomiti settantenni adorati dalla cinefilia internazionale, che attingono ai materiali di archivio, alle fotografie e alle immagini del fascismo (in principio, la fine di Mussolini a piazzale Loreto). Il film infatti rivisita il colonialismo italiano in Africa, la guerra d’Etiopia, la barbarie di ieri e quella che verrà. Viraggi, montaggi, giochi di luci e di voci (tra le quali Giovanna Marini) si mescolano nella «camera analitica» dei due registi, il cui sguardo «freddo» è infine uno dei più commoventi del cinema d’oggi. I sessanta minuti di Pays Barbare inchiodano il pubblico al fascismo familiare o interiore, difficile da riconoscere e da debellare.
Sul versante documentario, si tornerà a parlare di Temporary Road. (Una) vita di Franco Battiato di Giuseppe Paolicelli e Mario Tani, nelle sale il prossimo 11 dicembre. Mentre le sfide più tradizionali, non meno suggestive, a Torino hanno avuto forse l’apice in All Is Lost – Tutto è perduto di J. C. Chandor, già fuori concorso a Cannes e oltretutto scelto come film d’apertura del Tertio Millennio Film Fest oggi a Roma. Il protagonista Robert Redford è un naufrago nell’Oceano Indiano alla ricerca di una rotta oltre la tempesta e in tenace lotta per la salvezza. Solitudine e metafora del cinema.