Benedetto Croce, come è noto, non gode in Italia di buona stampa. Per lo più gli articoli che escono sulle pagine culturali sono volti sempre a sottolineare, come non credo accada a nessun altro pensatore, i “limiti” o gli “errori” presenti nel suo pensiero. Quei rari articoli positivi usciti negli anni passati hanno esaltato, al massimo, il suo stile di scrittura, o, ad esempio, il suo esempio morale ai tempi del fascismo. Tutti elementi “estrinseci, se vogliamo. È perciò con piacere che si segnala l’ampio articolo che Armando Torno ha dedicato domenica scorsa al filosofo napoletano sulle pagine culturali del “Corriere della sera”, in occasione dell’uscita dell’Estetica nell’edizione critica nazionale delle opere curata dall’editore Bibliopolis. Non solo Torno ha apprezzato l’opera per il suo valore teoretico, ma ha anche insistito nell’articolo sul fatto che, con la sua pubblicazione e successiva traduzione nelle principali lingue europee, finalmente un filosofo italiano acquistava una fama e un’influenza al di fuori dei confini patri. Lo stesso titolo dell’articolo era da questo punto di vista eloquente: E Croce ci portò la filosofia italiana in Europa. In effetti, l’influenza europea esercitata dall’Estetica , ma anche di diverse opere ad essa successive, soprattutto quelle sulla storia o il volume su Vico, fecero rapidamente di Croce uno dei pensatori più influenti e discussi del continente. Al pari si puòdire, senza timore di esagerare, di un Bergson, di Ortega y Gasset, di Thomas Mann o di Huizinga. Croce era il rappresentante italiano in quella aristocratica “internazionale dei colti”, come potremmo chiamarla, che di fatto si era creata negli anni precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale. Fu per questo motivo, fra l’altro, che la sua opposizione al fascismo contribuì in maniera determinante a orientare molta parte dell’opinione pubblica mondiale. Così come fu quasi naturale che gli angloamericani si rivolgessero a lui, verso la conclusione del conflitto, per riannodare dei fili interrotti e studiare le vie della ricostruzione nazionale. Poi, nel secondo dopoguerra, iniziò un’altra storia per la fortuna di Croce, in primo luogo nel nostro Paese. Ciò avvenne sia in ambito politico, ove persino gli allievi di Croce, in contrasto più o meno esplicito col maestro, e in modo più o meno evidente, “sterzarono a sinistra; sia sul terreno più strettamente culturale e filosofico ove ci fu un doppio attacco sferrato da una parte dai marxisti (non solo i gramsciani ma anche e soprattutto i dellavolpiani), e dall’altro dai neolluministi (di cui gli anticrociani scientisti odierni, molto visibili checché se ne dica proprio sulle pagine culturali dei più influenti organi di informazione, possono considerarsi gli eredi diretti). Fra gli effetti dell’ostracismo a Croce e del mutato clima culturale italiano c’è stato senza dubbio il fatto, che potremmo considerare una sorta di masochismo nazionale, che dall’Italia gli studi e la conoscenza del nostro maggiore filosofo non sono stati più alimentati o stimolati. Poco alla volta, seppure con varie eccezioni (soprattutto per quel che concerne certi settori di studio nel mondo anglosassone), Croce è un po’ scomparso dagli orizzonti degli studiosi. Ma in verità è scomparsa la filosofia italiana nel suo complesso. Come Torno stesso lascia intuire alla fine del suo articolo, il discorso da fare o la conseguenza logica da trarre è più generale e va oltre Croce e la sua dimensione europea. Non disperiamo che, poco alla volta, si arriva a questa ulteriore consapevolezza. Gli è che, detto in soldoni, se Croce portò la filosofia italiana in Europa, bisogna avere il coraggio di riconoscere che i suoi successori e critici l’hanno rinchiusa di fatto in un ambiente provinciale e autoreferenziale. Casomai proprio proponendosi di “sprovincializzarla”. Il fatto è che il vero provincialismo è quello di chi importa acriticamente pensieri dal di fuori, li mischia in un cocktail più o meno eclettico, e non li fa maturare dal contesto esistente. Croce aveva fatto invece, a inizio Novecento, proprio il contrario: proponendosi di dare una filosofia al nuovo Stato nazionale, aveva riproposto e riattualizzato la tradizione intellettuale autoctona, non rinchiudendola in se stessa ma facendola dialogare, con la sua propria cifra, con le altre in contatto reciproco e fruttuoso per entrambe.
PS Ultimamente Roberto Esposito ha tentato di ridare un ruolo alla tradizione filosofica italiana, individuandone la cifra e le caratteristiche specifiche. Si è trattato di un tentativo ambiguo, nel senso che già dalla sua prima forma, quella assunta nell’interessante volume del 2010 intitolato Pensiero vivente, l’Italian Theory, come la si è chiatta, si presentava come una sorta di “Giano bifronte”. Da una parte, infatti, Esposito dava una tutto sommato apprezzabile e condivisibile lettura storica di alcuni momenti fondamentali del pensiero italiano da Machiavelli ad oggi; dall’altra cercava di legare a questa storia la filosofia italiana del secondo dopoguerra, che in verità, come si è detto, è stata per sostanza e carattere tutt’altra (e direi “inessenziale”) cosa rispetto a quella precedente. Ora, facciamo pure la tara sia degli inserti “culturalmente corretti” presenti nel libro (mi riferisco in primo luogo a quello su Pasolini), sia della tensione anticapitalistica che muove spesso Esposito (al pari, in verità, di molti altri pensatori italiani contemporanei). Fatto sta che l’Italian Theory, che avrebbe potuto svilupparsi in un senso o nell’altro, alla fine, come sembra chiaro dalle ulteriori attività di Esposito, ha preso una direzione intellettuale che va in senso opposto a quella che ispira le pagine di questo blog.
Fa piacere che, ogni tanto, qualcuno, al di fuori degli adetti ai lavori, si ricordi di quell’importante personaggio che fu Benedetto Croce. Ripropongo uno scritto già pubblicato, a suo tempo sul sito di Croce, in merito alla sua attualità. Grazie per le eventuali
Tue osservazioni.
Trieste, settembre 1998
Da quando, sin dai tempi degli antichi greci, si è giunti alla convinzione che l’uomo è un “animale sociale”, l’importanza data alla comunicazione e poi più avanti alla “divulgazione” è andata acquistando valori sempre più assoluti, a volte con implicazioni addirittura “metafisiche”. Col rischio, qualche volta, di condizionare o addirittura cristallizzare le ricerche,
sia scientifiche che umanistiche, su schemi prefissati consoni al “sentire vigente”.
Nel campo della comunicazione scientifica è rimasto celeberrimo, in Russia, il caso del biologo Lisenko che accusava i liberi ricercatori di sostenere una teoria assolutamente incompatibile con il materialismo dialettico, ottenendo il bel risultato di improntare tutta una serie di comportamenti pratici su una linea deleteria per la ricerca con inevitabili ricadute sull’economia, al punto tale che, ancora oggi, quella parte del mondo sta pagandone lo scotto.
Tentare di esporre le questioni complesse con parole semplici, senza incorrere in gravi alterazioni che compromettono la realtà intesa come conseguimento di giudizi rigorosi ricavati da quanto, sino ad ora, è stato sancito dalle fonti storiche positive e scientificamente intese, se da un lato è impresa velleitaria ed approssimata, da un altro lato è condizione irrinunciabile in un contesto “democratico”, il solo in cui l’animale sociale” che sta in noi si dispiega in tutta la sua potenzialità.
Con queste minime premesse intendiamo introdurre, in termini poco accademici, e sfidando una raccomandazione gramsciana, il personaggio di Benedetto Croce, un filosofo le cui teorie “saranno da accogliere o da respingere, ma bisognerebbe conoscerle con esattezza”, del quale ricorre, nel prossimo novembre, il 46esimo anno della scomparsa.
E’ uno strano destino quello riservato all’opera del Croce. La considerazione ispirata dalla sua figura non è corrispondente ad un altrettanta ripresa divulgativa delle sue opere. E se i cattolici, da una parte, e gli intellettuali di ispirazione marxista dall’altra , cercano, legittimamente, di promuovere altre personalità della storia del pensiero, una parte dei laici e liberali non dimostrano l’ interessamento che Croce indubbiamente merita.
Sarà perché Croce si è rivelato un personaggio scomodo per tanti. La sua completa affrancatura dalle costrizioni economiche gli ha permesso di essere quello che tutti, o quasi, si augurano di diventare: un uomo libero.
Tanti hanno avuto la fortuna di nascere benestanti, ma pochi hanno intrapreso il percorso che la sua volontà di ferro e la sua tempra morale hanno consentito di perseguire. Sembra quasi che la sua presa di posizione sprezzante verso alcune istituzioni di derivazione illuministica sia stata mal digerita da certi ambienti che erano in grado di condizionare in maniera decisiva il mondo di una parte dell’ informazione. Se mi si concede l’ iperbole lo definirei un “anarchico borghese”.
Nonostante il riconoscimento degli studiosi contemporanei: “sono crociano nel senso che ritengo che Croce abbia svolto nei confronti della storia una funzione analoga a quella di Freud nei confronti della psiche umana” disse qualche tempo fa Elio Apith alla radio, l’opera di Benedetto Croce non è aliena dal risentire dalle condizioni del suo tempo.
La sua veemente polemica verso l’entusiasmo di impronta positivistica imperante nei primi anni del secolo scorso lo porta ad esercitare la sua notevole dote di polemista con sferzante ironia.
D’altra parte, non solo per questioni di rivalità accademiche, coloro che si sono formati attraverso gli studi scientifici non hanno mai risparmiato le loro critiche nei confronti del carattere astratto della filosofia (tanto più verso la filosofia idealistica che, per converso, per taluni è stata l’unica vera filosofia) mentre le discipline umanistico letterarie trovano una tiepida accoglienza da parte di altri.
E’ un conflitto che la che la Filosofia recente, quella della scienza, non è stata indirizzata ad attenuare e che perdura magari attraverso riferimenti teoretici ricavati dal neopositivismo che sostiene l’insensatezza di ogni essere metafisico, della filosofia analitica che postula il confluire della metafisica nella scienza e nella epistemologia che si richiama al razionalismo critico popperiano e sulla sua teoria della falsicabilità (del resto anticipata in molte osservazioni espresse dal Croce come, per esempio, il suo riconoscimento che le realtà recate dai filosofi non si abbattono a vicenda ma si vanno via via integrando).
Croce diceva di mostrarsi consapevole di essere uno degli ultimi costruttori di “Sistemi” e che questo non gli avrebbe risparmiato delle critiche. Con questa dichiarazione rivelava, senza asserirlo in maniera esplicita, di essere giunto a testimoniare la fine di un epoca, se con questa affermazione si intende riferirsi ad un modo di sentire che ha accompagnato per parecchi secoli la nostra storia che, ineluttabilmente, subirà un cambiamento col sopraggiungere della modernità.
Come rilevava G. Semerari “La verità è che (…il crocianesimo…) resta del tutto estraneo al problema moderno delle categorie e dei valori consistente nella loro genesi , della storicità del reale, della loro costituzione empirica, . La conseguenza fu che il neostoricismo restò adagiato nel tradizionale schema del rapporto di individuale e universale, di finito e infinito (…) laddove il vero problema in termini criticistici e storicistici, nei termini cioè che il pensiero moderno non può più eludere dopo Kant, Fuerbach, Marx, Freud,, Neitzsche e Husserl, era quello di vedere COME dall’individuale si genera l’universale”.
Nel “come” ci si procaccia da vivere e nel “come” si vive, si ama e si concretano le affettività starebbe dunque, in termini semplificati, la dimensione non sufficientemente compresa dalla storicismo in relazione alle vicende umane.
Altre perplessità traggono spunto dalla concezione crociana di “concetto puro”, ovverosia la, per così dire, simbiotica unione dell’ ”individuale” con l’ ”universale” senza la quale non è possibile l’esistenza dell’uno e dell’altro, che veniva riservata e trovava tutta la sua preminenza nel campo di questa filosofia.
Qualche studioso di Croce ammette, fra i denti, che quella presa di posizione, del resto espressa in un momento storico in cui i rappresentanti del Positivismo imperante ostentavano una serie di atteggiamenti caratterizzati da entusiastici infantilismi e castronerie lampanti, impediva al Croce di riconoscere che quello che lui definiva il “concetto puro” potesse avvenire anche nel campo degli “pseudoconcetti”, ovverosia, nel campo della matematica e delle scienze.
Desta, in altri termini, perplessità, restando nella terminologia usata dal Croce, .la definizione di “creatori di concetti puri” riservata ai soli studiosi del sapere storico-umanistico e la mancata conveniente estensione di questa definizione agli scienziati.
Diventa problematico, anche per un superstite filosofo idealista, non riconoscere il carattere “storico-dinamico” di ogni scoperta scientifica, ed ancor più difficile è il sostenere il mero carattere catalogante delle discipline legate alla scienza.
In altri termini, pensare che le evoluzioni derivate dalle scienze, delle tecniche applicate a settori variegati come i trasporti, le comunicazioni, l’edilizia, la medicina, l’industria e via elencando, appartengono alla sfera pseudoconcettuale e non contengano “in profundo” alcuna verità denoterebbe una forma di pensare contenente un illecito errore di sottovalutazione, mentre, restando sempre in questo elevato ambito, sarebbe più appropriato pensare che l’evolversi di queste discipline contribuiscono ad aggiungere un “tassello” di “concetto puro” alla conoscenza dell’ Umanità.
Di conseguenza, sempre in termini di filosofia idealistica, le classificazioni, le convenzioni, le nozioni astratte, sarebbero omologhi all’”individuale” – individuale (questa volta) astratto. Senza le quali la sintesi creatrice (a priori, della scoperte scientifiche omologa all’ ”universale” (universale concreto, concetto puro, philéin-sophia) non potrebbe avvenire.
Qualche superstite, sopravissuto aderente all’ortodossia idealistica potrebbe replicare che spostarsi con la biga o con il Jumbo non cambia niente al nostro stato di uomini che si spostano. Che tutto questo non appartiene alla sfera teoretica (della conoscenza) perché appartiene al mondo della “pratica”.
Ma, inevitabilmente, è solo nella pratica che si forgiano i saperi, le abitudini, il diritto, le istituzioni e perfino l’intimità del nostro essere.
Cosa, del resto, ribadita e riconosciuta da Benedetto Croce che è sempre stato un tenace assertore dell’ unicità della natura umana contro ogni forma artificiosa di dualismo o scissione tra pensiero e azione.