Come si può creare lavoro in Italia? Come può il Presidente del Consiglio dimezzare il tasso di disoccupazione in Italia portandolo ai livelli americani come ha ipotizzato da Detroite vincere la sfida che si è posto quale sua unica preoccupazione per i prossimi mesi? È evidente che la surreale discussione sull’articolo 18 ha poco a che fare con la soluzione del problema; il lavoro si crea ritrovando la capacità di crescereed evitando che un’eventuale crescita sia eccessivamente iniqua. Come si fa allora a crescere in un contesto di risorse pubbliche che sono scarse e destinate a continuare ad essere tali nonostante le nostre lamentele?
Alcuni degli economisti che studiano lo sviluppo come nozione legata all’innovazione, tra di loro Dominique Foray e Kevin Morgan, sembrano aver trovato la soluzione e ne hanno presentato i contenuti qualche giorno fa, ad una conferenza organizzata a Pisa dalla Commissione Europea. Si tratta di costruire e realizzare strategie fondate sul principio che ogni regione e città europea abbia un numero limitato di “specializzazioni intelligenti” sulle quali concentrare gli investimenti pubblici, gli sforzi per attrarre le imprese e le professionalità che possono portare in questi comparti le tecnologie e le competenze che mancano, disegnando pacchetti di incentivazioni fiscali, formazione, semplificazione adatti alle esigenze di quei settori. All’Europa il principio delle “specializzazioni intelligenti” è piaciuto a tal punto che la sua applicazione è diventata condizione per poter accedere ai 350 miliardi di Euro che sono buona parte del programma di investimenti che la Commissione spenderà nei prossimi sette anni per uscire dalla crisi. Tale successo è legato a due caratteristiche del nuovo paradigma che ne promettono un livello di efficienza elevato: specializzando ciascun territorio si evita una competizione interna che spesso assume i caratteri di una “guerra tra poveri”che comporta la progressiva erosione di quella coesione che è caratteristica fondante del modello sociale che l’Europa vuole salvaguardare; in secondo luogo, dover scegliere una vocazione riconoscibile a livello internazionale, spinge quei territori ad uscire dalla propria parrocchia, a riflettere sul proprio ruolo nelle “catene di generazione del valore” globali, a confrontarsi e cooperare con il resto del mondo.
Certo i dubbi che il nuovo mantra dello sviluppo funzioni sono tanti e tante sono le differenze con quelle “politiche industriali” che il nostro Paese, da tempo, non prova neppure più a concepire.
Fino alla fine degli anni ottanta, lo “Stato imprenditore” ha avuto senz’altro grandi meriti nell’avviare processi di concentrazione e infrastrutturazione senza i quali oggi non avremmo neppure Internet: interveniva direttamente con capitali che nessun privato avrebbe potuto fornire, promuoveva e difendeva i propri campioni. Di recente quella forma di politica industriale è stata più presente negli Stati Uniti e in Inghilterra, costretti a salvare grandi gruppi industriali (Chrysler) o banche (Royal Bank of Scotland), che non in Europa. Il vecchio continente socialista partiva da livelli di indebitamento e spesa pubblica più elevati dei Paesi del turbo capitalismo e con l’EURO ha intrapreso un cammino – difficilmente reversibile – nel quale rinuncia ad alcune delle prerogative che avevano gli Stati Nazione.
Con le “specializzazioni” di ultima generazione, la sfida nuova è quella di sostituire all’ingerenza dello Stato, l’intelligenza di istituzioni che proprio su questo terreno proverebbero a conquistarsi la legittimità di governare una Società trasformata dalle tecnologie dell’informazione.
Le amministrazioni non scelgono – come sarebbe successo con le politiche industriali dell’IRI -le specializzazioni, o perlomeno non lo fanno da sole perché non hanno informazioni sufficienti. Esse diventano invece una piattaforma – come quella di Siviglia, che la Commissione ha costruito per condividere le esperienze della specializzazione intelligente – attraverso la quale emerge la conoscenza che innovatori interni ed esterni ad un dato territorio possono valorizzare in quell’area. Nel mondo delle specializzazioni intelligenti, lo Stato, inoltre, organizza le priorità -non necessariamente riconducibili ad un settore produttivo, perché Torino potrebbe ben decidere di distinguersi per voler diventare la prima città con mobilità elettrica e Bologna di costruire un primato vendendo a distanza i servizi dei migliori ospedali -in maniera tale che regioni e città, anche distanti, possano evitare le duplicazioni e collaborare se scoprono di avere la stessa vocazione.
Il tentativo – moderno e difficile – è quello di sfuggire alla logica dell’economia come gioco a somma zero e estrarre, in un contesto di risorse scarse, il massimo ritorno possibile dall’investimento pubblico.
Il dubbio grosso è legato allacapacità di rispondere alla novità di Paesi come l’Italia e non solo. A leggere i documenti di specializzazione che le amministrazioni italiane stanno producendo,sembriamoin difficoltà nel decidere su cosa vogliamo puntare le nostre carte. L’esperienza delle strategie per l’innovazione dimostra che sempre di più la discontinuità della specializzazione intelligente viene accettata con entusiasmo,ma ancora non si vedono scelte sufficientemente precise e motivate. Scelte che siano capaci di intercettare comunità di innovatori che non sono rappresentati nelle sedi tradizionali; di convincere, come diceva Prodi ieri nel suo editoriale da queste colonne, un sufficiente numero di italiani che vivono a San Francisco o a Parigi, a tornare – anche in maniera temporanea – a Napoli o a Matera per dare il contributo della propria esperienza ad un progetto d’impresa ambizioso.
Tutte le regioni parlano di turismo, ad esempio, ma nessuno esce dal bar delle opinioni personali e propone una focalizzazione che parta da un’analisi del valore, dell’impatto ambientale, dei bisogni, del posizionamento competitivo dei propri prodotti sui diversi segmenti di clientela attuale e potenziale. Come fanno i francesi, per esempio. A livello centrale,le aree che Ministeri chiave come quello della ricerca e dello sviluppo economico indicano come prioritarie nella strategia nazionale di specializzazione intelligente sono troppe (dodici) e troppo generiche (tra di esse si cita il “made in Italy” senza ulteriori specificazioni) per comunicare agli investitori internazionali e a chi fa innovazione quale è la direzione che il nostro Paese intende intraprendere. Basta osservare l’esperienza di una regione – Stato come il Baden-Wurttemberg per misurare il potenziale di miglioramento che è a disposizione di questa squadra di governo e di Graziano Delrio che segue questo dossier.
Qual è dunque la visione che l’Italia ha di se stessa da qui al 2020? Esiste, davvero, un conflitto tra l’urgenza di “salvare gli operai a Piombino” e la necessità di medio periodo di riportare l’industria manifatturiera italiana sulla frontiera dell’innovazione? In realtà, questo è uno dei casi nei quali è vero quello che dice il Presidente del Consiglio quando insiste che l’Italia ha bisogno di politici più che di tecnici. Ma per motivi un po’ diversi da quelli citati da Renzi:tra i burocrati dello sviluppo c’è chi ha raccolto la sfida, ma essi hanno bisogno di giocarsela con chi ci mette la faccia di fronte agli elettori, perché gli amministratori, per mestiere, non possono prendersi il rischio di un cambiamento così radicale. È scegliendo con intelligenza che Matteo Renzi può raggiungere il suo obiettivo sui tassi di occupazione e costruire una classe dirigente che sia all’altezza della società che le imprese della Silicon Valley hanno così radicalmente trasformato.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 29 Settembre