Libri.
Tra lo sconcerto e l’indignazione stiamo assistendo, in questi giorni, all’ennesima prova di incapacità della politica italiana di cogliere la domanda di cambiamento che viene dalla società, filtrarla, offrire risposte e, al contempo, educarla; quel che dovrebbe fare, in sostanza, una classe dirigente. Ancor più in frangenti come questi, alla coscienza dell’intellettuale torna, o dovrebbe tornare, a bussare prepotentemente una domanda, per l’intellettuale in realtà eterna: qual è il proprio posto e ruolo? Quanti ‘centimetri’ vanno posti tra sé e la realtà per non fare della propria attività di riflessione un esercizio sterile o peggio una forma di irresponsabilità nei confronti della collettività? E dove collocarsi, da dove parlare? La storia, la sociologia, la filosofia degli intellettuali ha offerto decine di modelli di risposte a questi e altri interrogativi. Da ultimo, una proposta viene da Rino Genovese, nell’agile volumetto Il destino dell’intellettuale (manifestolibri 2013). Tra riflessione teorica e analisi di profili intellettuali dell’otto e del novecento, Genovese traccia l’identikit di un intellettuale scettico, disorganico, il cui impegno in contesti specifici non è più volto all’azione immediata quanto piuttosto allo smuovere i punti di vista, trovarne di nuovi, stabilire nuovi rapporti, più liberi e aperti, dentro la comunicazione (p. 56). A fronte della tendenza propria del potere a fissare i termini dell’esistente, a confermare lo status quo, l’intellettuale assume su di sé il compito di spostare, fuori da messianiche e teleologicamente pre-ordinate filosofie della storia, i termini del discorso. Uno scetticismo, riferito in primo luogo a se stessi, alla propria forma di vita e civiltà, ma per nulla rinunciatario. Anzi, direi programmaticamente radicale: da un intellettuale non bisogna pretendere nulla di meno che un certo radicalismo, che sia capace di spostare almeno un po’ i termini del discorso. La mia interpretazione della prospettiva offerta dalle pagine di Genovese è che se non si è capaci di far fare alla discussione un passo in avanti, compiere uno scarto a destra o a sinistra, allora è meglio tacere.
Con i libri di Luca Diotallevi si può non concordare, li si può ritenere anche a tratti eccessivamente aggressivi. Ma non si può non riconoscergli questo pregio: contengono idee, proposte, che spostano punti di vista e termini della discussione. Nell’ultimo La pretesa. Quale rapporto tra vangelo e ordine sociale (Rubettino 2013), Diotallevi torna su alcuni temi già altrove affrontati, la laicità su tutti, da una prospettiva che può apparire eterodossa tanto al sociologo quanto al teologo: che nesso esiste tra vangelo e ordine sociale? Quale impatto dovrebbe avere il primo sul secondo? In dichiarata, aperta polemica con la nozione di laicità, al di là di sfumature e note a piè di pagina, Diotallevi da subito ci invita a guardare alla crisi che attraversiamo non come alla crisi di una o un’altra istituzione, ma di un intero set di istituzioni, la crisi di un mondo, che egli attribuisce al tramonto della capacità di controllo politico delle istituzioni sociali, alla fine del primato della politica sulla società, entro il quadro di confini territorialmente delimitati. L’ordine statuale è infranto, il mondo politicamente auto-fondato delle state societies che ha caratterizzato la modernità e i nostri vocabolari è al tramonto. Cosa di cui non c’è affatto da rammaricarsi. Infatti, quel che Diotallevi rifiuta è il ricatto rappresentato dall’alternativa tra ordine statuale, primato della politica da un lato, o caos dall’altro. L’autonomia delle realtà temporali, delle istituzioni mondane, non è pensabile solo secondo il paradigma monarchico e gerarchico della laicità, ma può essere pensata e salvaguardata anche e meglio entro un paradigma poliarchico ed eterarchico, che chiama saecolare. Da una certa comprensione dell’autonomia delle realtà temporali fondata su una teologia cristiana del sociale, Diotallevi muove una serrata critica al progetto secolaristico “di un ordine (quasi sempre politico) garantito da un potere assoluto e autosacralizzantesi che si sottrae a ogni responsabilità e si presenta come neutro” (p. 99), sostituitosi ad un regime di antagonismo delle libertà inscritto invece nella teologia cristiana del sociale. Riflettere su quest’ultima significa spostare i termini del dibattito, ragionare su una via d’uscita saecolare dalla crisi dell’ordine sociale, né anti-moderna né post-moderna; se la politica nell’ordine sociale moderno si è arrogata il diritto di rappresentare il vertice di una piramide che vuole fissare i termini di uno specifico regime dell’esistente, la parola e l’opera del vangelo, la liturgia eucaristica che si ripropone ogni volta con la ciclicità del rito, ricordano il carattere temporaneo di un ordine mondano in ultima istanza, alla luce del vangelo, già condannato alla sconfitta, e rappresentano un antidoto alla sacralizzazione di qualsiasi ordine mondano, secolare o religioso che sia. La parola e l’opera del vangelo chiamerebbero alla consapevolezza della contingenza di qualsiasi ordine sociale, e alla statuizione di un regime in cui apertura, poliarchia, eterarchia, sono preferibili a chiusura, monarchia e gerarchia. Quel che ne consegue, sostiene Diotallevi, è uno scenario compatibile con l’idea di modernità multiple, con la sottolineatura della faglia anglo-francese che divide al suo interno la stessa modernità occidentale tra una forma di secolarizzazione per differenziazione e una di secolarizzazione per sostituzione, ed in particolare per imposizione del primato della politica. Modernità multiple e stateless societies vengono proposte così come vie d’uscita saecolari da una concezione laica di ordinamento gerarchico tra poteri che ormai mostra i segni della crisi epocale, rispetto alla quale non è sufficiente stabilire distinzioni di grado, come quelle tra laicità debole e forte, aperta o laicista: quel che va fatto è spostare i termini del discorso, guardare la crisi che ci attanaglia da altra prospettiva, proporre un nuovo vocabolario.
Ci sono diverse cose nel libro di Diotallevi che non mi convincono o che mi appaiono non sufficientemente elaborate. Non una parola viene detta su come si pensa una stateless società. Politiche multiculturali e forme di pluralismo giuridico sono, nel dibattito socio-politico, i modi in cui per lo più si articola un orizzonte post-primato del politico (cfr. M. Croce, A. Salvatore, Filosofia politica. Le nuove frontiere, Laterza 2012). Dalle pagine di Diotallevi non è dato capire verso cosa si volga la sua prospettiva. Così come, ad altro livello, si potrebbe discutere l’equiparazione tra ordine secolare (con la sua idea di spazio assoluto, infinito e piatto ‘da cui è espunto tutto ciò che contesti la sovranità di un potere mondano’, p. 99) e sacro, da un lato, e quella tra santo e idea di un tempo in cui si mescolano ordini di temporalità. Sono precisazioni e differenze importanti, rispetto alle quali i punti di vista possono anche significativamente differenziarsi; ma nulla toglie importanza alle aree, altrettanto significative, di overlapping, a partire dall’orizzonte condiviso delle multiple modernities e della critica al primato moderno del politico. E nulla toglie, soprattutto, al riconoscimento di un esercizio intellettuale che vuole spostare i termini del discorso, e che ci riesce, e che deve essere raccolto.
Eppure credo non basti ancora. La crisi che viviamo – che un atteggiamento non conservatore non può escludere ma anzi deve sforzarsi di pensare come auspicabilmente fucina di un ordine migliore – chiede agli intellettuali non solo di essere specifici, scettici, e capaci di spostare i termini del discorso e stabilirne di nuovi. Io credo che essa chieda qualcosa che sta completamente fuori dalla prospettiva individualista di Rino Genovese, ossia la faticosa ricerca di connessioni sentimentali con pezzi della società, e la ricerca – scettica, ma non rinunciataria – non solo di fini intermedi legati a specifiche campagne, ma anche di visioni più generali di un ordine sociale diverso. Non un ‘libero cavaliere’ nei meandri della comunicazione, un dandy quasi eroico come per Genovese, ma un interprete (come per Walzer) capace di chiedere alla sua comunità e al resto della società di essere abbastanza radicali da riaprire ogni volta i termini del discorso, da rivedere i propri miti e sostituirli quando opportuno con nuovi. Una connessione sentimentale presuppone però e interpreti e comunità, e il dramma degli intellettuali oggi sembra essere o la loro incapacità di essere interpreti radicali, o la difficoltà di un reciproco riconoscersi con specifiche comunità.