Il decennale sistema di potere della dinastia Assad ha avuto come collante il matrimonio d’interesse tra la minoranza alawita (nata da uno scisma all’interno dello sciismo, circa il 12% circa della popolazione) e la maggioranza sunnita (il 65 %). Tale accordo prevedeva che i clan alawiti , in primo luogo quello degli Assad, occupassero le principali cariche politiche e militari, mentre il potere economico restava nelle mani di clan sunniti. Per un insieme di ragioni, la saldatura tra queste due comunità, garantita per decenni dall’abile Assad padre con pugno di ferro, è saltata. E ha scatenato la rivolta sunnita contro il regime. A questo punto la neutralità degli altri tre gruppi religiosi in Siria, i cristiani (10% della popolazione), i curdi (10%), minoranza non araba ma di fede sunnita, e i drusi, piccola minoranza araba anch’essa di matrice sciita (il 3%), è passata in seconda linea rispetto alla lacerazione tra sunniti e alawiti.
La quale ha radici profonde e antiche: l’attuale Stato siriano, nato dalle manovre politiche occidentali, specie francesi, alla fine della prima guerra mondiale, non includeva inizialmente la provincia alawita – concentrata nella fascia costiera tra il Libano e la Turchia – tradizionalmente gelosa della sua separazione dalle provincie ex ottomane di Aleppo e Damasco.
La frantumazione del mosaico etnico – religioso siriano ricorda quanto è accaduto in Iraq con l’occupazione americana. In entrambi i casi è saltato il rapporto tra i principali gruppi religiosi e si è scatenata la violenza settaria. Il che sta provocando mutamenti radicali del quadro regionale: il “nuovo” Iraq è diventato, paradosso della guerra voluta dai neoconservatori americani, alleato dell’Iran, il grande paese scita. Mentre la “nuova” Siria“potrebbe” diventare alleata della moderata Arabia Saudita, la potenza regionale sunnita. Il nuovo assetto geopolitico potrebbe inoltre coinvolgere Israele, che segue lo sviluppo della guerra civile in Siria con comprensibile cautela, e il Libano, la cui faticosa unità interna rischia a sua volta di essere travolta dallo scontro. Che pone interrogativi angosciosi. Come reagiranno gli Hezbollah, il movimento egemonico della maggioranza sciita libanese, di fronte alla probabile rottura del cordone ombelicale che, attraverso la Siria, lo collega all’alleato iraniano? E finalmente: come sarà la Siria di domani dopo tanto sangue? Non si corre il rischio di un’egemonia fondamentalista all’interno della maggioranza sunnita? Reggerà l’unità del paese alla guerra civile oppure nascerà, come alcuni pronosticano, un nuovo Stato alawita?
Siamo dunque di fronte ad un nuovo episodio di quel traumatico processo che lo storico americano David Fromkin, descrisse anni fa in un lucido libro, A Peace to End all Peace, che analizzava le conseguenze del crollo dell’impero Ottomano e della occupazione coloniale britannica e francese. La quale portò alla formazione forzata di pseudo Stati con frontiere artificiali che non tenevano conto dei fattori clanici, tribali e religiosi dominanti nel Medio Oriente. Fattori che sono alla base, come ha scritto Nali Nasr, noto studioso iraniano che insegna negli Stati Uniti, di una concezione della politica che non si basa sul rapporto diretto tra Stato e cittadini ma sul “bilanciamento dei poteri tra le diverse comunità”. La possibilità di un’evoluzione democratica di paesi come la Siria e l’Iraq, rimane legata alla convivenza tra i diversi gruppi religiosi, in particolare tra sciiti e sunniti, le due comunità più importanti del mondo islamico. Il settarismo messianico è il nemico numero uno della democrazia.
Lo è stato sempre, anche in Occidente fino a poco tempo fa. In Medio Oriente solo regimi che, come bene o male è accaduto in Libano, rispettino con opportune formule istituzionali le diverse appartenenze religiose, possono garantire la convivenza favorendo un’evoluzione democratica rispettosa di tradizioni e culture locali. Evitando così l’errore, Iraq docet, di esportare “incomprensibili” modelli occidentali.