L’Europa va male e gli europei ormai credono poco o punto nella sua energia e nel suo sogno: sono/siamo scettici, disillusi, scoraggiati. Scocca allora “la tentazione di Graziella”. Che cos’è? La voglia di rifuggire dai problemi del Vecchio Continente, per esempio il dilagante antisemitismo, e di rifugiarsi nel ricordo dei lunghi baci dati un tempo a piazza del Duomo o degli amplessi in un gelido alberghetto di Stoccolma. E oggi? Si può sempre volare con l’amata “Graziella”, comunque si chiami, “a Tangeri, a Lecce o a Venezia”, una delle Macondo meridiane elaborate ad arte come alibi per chi può permetterselo. Di questa tentazione si narra nel monologo Hotel Europe, il nuovo testo di Bernard-Henri Lévy presentato l’altra sera a Venezia, dove l’autore è venuto con la moglie Arielle Dombasle, attrice di talento e icona dalla magrezza mirabile, forse un po’ inquietante.
Hotel Europe è un dramma in cinque atti interpretato da Jacques Weber, con la regia del bosniaco Dino Mustafic, in “prima” al teatro La Fenice (nel pubblico, fra gli altri, Moni Ovadia e Adriano Sofri). Lo spettacolo è ambientato e dedicato a Sarajevo, dove a fine giugno è stato rappresentato in anteprima nel centenario dell’attentato del 1914 che dette il via al primo conflitto mondiale. Nonché vent’anni dopo la guerra e le stragi etniche in Bosnia contro le quali molto si spese Bernard-Henri Lévy dal 1992 al ‘95. BHL, come lo chiamano i francesi toujours propensi all’acronimo, nonostante i 65 anni suonati rimane per tutti l’eclettico “nuovo filosofo” che nei Settanta osò contestare Sartre e fiutò anzitempo il fallimento del comunismo. Ebreo sefardita nato ad Algeri, ma parigino per eccellenza nei tic e nei riti da Rive Gauche, BHL è anche giornalista, scrittore e polemista alla ribalta con la sua proverbiale camicia bianca, assai ricco grazie all’eredità paterna, sempre pronto ad accorrere nei teatri di guerra, da Srebrenica all’Afghanistan alle martoriate lande dell’Africa, per testimoniare di una tragedia e – dice chi non lo ama – sbandierare il suo impegno. Nei giorni scorsi BHL ha esternato in favore di Matteo Renzi, nel quale confida affinché l’Europa ricominci dalla cultura, contrastando l’egemonia dei banchieri e dei burocrati.
Hotel Europe appartiene al “teatro di parola” in gran voga ed è fresco di stampa per le edizioni Marsilio nella traduzione Sara Prencipe (testo francese a fronte, pp. 153, euro 14,00). La drammaturgia è ridotta al minimo e le scenografie sono essenziali, arricchite dalla trovata delle videoproiezioni didascaliche delle pagine del “dio Google” relative ai personaggi o agli eventi menzionati. Spazio al memoir e soprattutto all’invettiva. Il protagonista è uno scrittore francese, manifesto alter ego di Lévy, nella camera di albergo dove aveva soggiornato nei giorni terribili delle bombe e dei cecchini a Sarajevo. Mancano un paio di ore al discorso che egli dovrà pronunciare per le celebrazioni dei cento anni trascorsi dall’assassinio di Francesco Ferdinando per mano del serbo Gavrilo Prinzip. Era il 28 giugno 1914 e con quell’attentato s’iniziò il cosiddetto “secolo breve” punteggiato dai genocidi al culmine con la Shoah. Le futili telefonate che lo raggiungono da Parigi e il martellante arrivo di e-mail e di messaggini consentono allo scrittore brevi digressioni, contrappunti privati nel suo struggente mosaico novecentesco. Non mancano gli aggiornamenti socio-politici: un accenno al Bunga Bunga o il j’accuse alla xenofobia di Marine Le Pen vincitrice alle ultime elezioni oltralpine. C’è l’evocazione degli sbarchi a Lampedusa, approdo dei profughi africani e naufragio in primis degli europei che li temono e li respingono. Giacché Europa – ricordano Weber e Lévy – nel mito è una giovane orientale, una principessa rapita da Zeus mentre sta giocando sulla spiaggia di Sidone e portata fino a Creta sui flutti del Mediterraneo in tempesta. Insomma, dire no agli esuli per l’Europa significa negare se stessa, le sue origini e il suo destino.
Hotel Europe è dovizioso di citazioni colte, ancorché talora non dichiarate come nel caso della civiltà delle chiacchiere nei bistrot, cara a George Steiner quando scrive: “L’Europa è i suoi caffè. Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa ai cafès di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel, fino a quelli di Palermo”. Nel dilemma filosofico essenziale, cioè la scelta tra istinto e ragione, tra le radici e l’orizzonte, Bernard-Henri Lévy non ha dubbi: bisogna stare con Edmund Husserl contro Martin Heidegger (che pure forse era il vero genio, si aggiunge). Il finale di Hotel Europe vagheggia di “cacciare via l’intero governo europeo”, di adottare Sarajevo come capitale dell’Unione, di stampare carta moneta in cui i volti di Dante, Goethe e Kant sostituiscano “gli anonimi ponti” che attualmente campeggiano sugli euro. Una Commissione europea degna di tal nome? Eccola: “Diderot all’educazione non nazionale con mandato di vietare Wikipedia nelle scuole e mettere in linea l’Encyclopédie. Le Pussy Riot ai diritti delle donne. Salman Rushdie alla laicità. Non esiste il ministero della laicità? E allora? Neppure quello dell’Assurdo – eppure lo do a Kafka, che per di più sarebbe capace di rifiutarlo. All’Essere metto Sartre. Pessoa al Nulla. Semprun alla Memoria e Camus alla Rivolta. A Rosa Luxemburg darò la Difesa. A Virginia Woolf la Sanità… La Giovinezza alla Gioconda… Il Tempo a Proust… Le Finanze a Madre Teresa”.
L’unico rimedio, insomma, sarebbe “il ritorno del coraggio e della furiosa chimica dei sogni”. Come s’intende, il tutto fa molto Parigi col suo eterno ‘68 nella mente, molto Nouveaux philosophes, molto BHL. Magari bastasse! O magari basta, chissà. La Fenice applaude e presto Hotel Europe sarà di scena in Francia, negli Stati Uniti e nella Russia di Putin indicato in scena come nemico dell’Europa. Già, l’Europa afflitta dal “morbo di Monaco” che spianò la strada a Hitler – sostiene Lévy – è oggi indifferente di fronte ai ragazzi che in Ucraina muoiono indossando le T-shirt con le stelle dorate in campo blu della bandiera comunitaria. Sebbene sospettiamo che esista una “Graziella” pubblica, un’eroina delle nobili cause perse che trasfigura la Marianne della Francia rivoluzionaria. Ovvero che le cose siano un po’ più complesse e che l’Europa deperisca anche di semplicismo.
Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 13 luglio 2014