Non c’è autore italiano che sia oggetto di studi così contraddittori e inappropriati come Andrea Camilleri. Non è un’attenuante che sia vivo, giacché la vastità della sua opera è tale da consentire ricerche approfondite e documentate che sarebbero più che sufficienti a fissarne la cifra. Ricerche che non mancano. Manca piuttosto il metro di giudizio che divenga anche di valore. La sua figura è vista dalla critica accademica più esigente e da quella militante più pretenziosa nel quadro degli autori di intrattenimento relegati più nel campo della narrativa che della letteratura, essendo proprio la letterarietà che gli viene perlopiù negata. Camilleri ha sempre avuto presente questa prospettiva, sapendo bene che il successo di Montalbano gli sarebbe costato il confino, perché in pochi casi il giallo è salito sul podio della letteratura e questi casi non sono quelli di Simenon, Hammett, Chandler e Conan Doyle, cioè i più grandi giallisti moderni, ma di Durrenmatt, Sciascia, Gadda, Ellroy.
Cosciente di ciò, Camilleri ha sempre cercato di indirizzare l’attenzione non solo della critica ma anche del suo pubblico verso i titoli non montalbaniani che comprendono i romanzi storici e civili, le docufiction, i saggi, i pamphlet, i romanzi contemporanei di denuncia, le favole, reiterando il proposito di prendere le distanze dal suo commissario col dire di non averlo mai amato e legittimato come sua creatura. Questa manifestazione personale di volontà non è comunque servita a distogliere l’interesse generale da Montalbano fino a spingere gli studi sull’autore a concentrarsi sul solo commissario. E’ forse l’errore più grave che la critica sta commettendo quello di stabilire la statura di Camilleri misurando Montalbano, ma appare ormai inevitabile che un giorno lo scrittore agrigentino sarà ricordato per il ciclo di Montalbano (e ancora di più per la omonima serie Tv) che non per libri come Il re di Girgenti, Le pecore e il pastore, Il casellante..
Montalbano è assurto a ipostasi di Camilleri al punto che anche la semiologia (quel che è rimasto della branca) si è occupata del personaggio trattandolo come persona e indagandone i gusti culinari, i luoghi d’elezione, la levatura morale e il senso etico, nonché ovviamente l’orientamento politico. Ma, visto che l’autore è vivo e gode di buona salute, ogni studioso non avrebbe che da chiedere a lui di Montalbano e della sua natura – o perlomeno tenere conto della sua opinione più volte espressa – anziché impegnarsi in una introspezione i cui esiti appaiono quasi sempre in contrasto con la visione che ne ha Camilleri. E del resto solo la semiologia, erede spuria di quel mai abbastanza deprecato strutturalismo di remota memoria, poteva intestarsi la pretesa di valutare un testo escludendo l’autore, arrivando a fare quanto nemmeno i narratologi degli anni Settanta osarono apertamente tentare, notomizzare cioè il personaggio oltre al testo.
L’ultimo in ordine di tempo a portare il commissario in laboratorio è stato Gianfranco Marrone, semiologo appunto, autore di una Storia di Montalbano (Museo delle marionette editore) che già dal titolo rivela l’intenzione di dare al personaggio una vita autonoma dal suo autore, contraddetto bellamente e impunemente anche nei punti più saldi del suo modello montalbaniano. Camilleri ha sempre sostenuto, fino alla nausea e ad arrabbiarsi sul serio, che il commissario di carta non opera in funzione di quello televisivo, per cui egli non scrive pensando alla futura trasposizione. Il dubbio in realtà è sorto vedendo l’incremento delle scene di azione rispetto alle fasi di riflessione; essendo peraltro Camilleri co-sceneggiatore, è sembrato a molti (fra cui il sottoscritto) che fosse un dubbio con qualche fondamento. Senonché è bene precisare che questa sensazione è nata limitatamente a un periodo successivo alla stagione nella quale ha più volte fatto apparizione “Montalbano Secunno” (cioè da La luna di carta del 2005 a La danza del gabbiano del 2009) come spalla inconscia del protagonista, insieme per esempio alla lettera a se stesso, apparizione che è poi andata scemando fino a cedere a un piano di realtà analogica facilmente sceneggiabile, ma intanto lasciando in ipoteca “Riccardino”, il romanzo finale e postumo (già consegnato a Sellerio) nel quale Montalbano incontrerà un suo doppio particolare, proprio il commissario televisivo nella persona di Luca Zingaretti.
Marrone ha visto un altro sviluppo e in un’intervista ha dichiarato: “Fin da subito si può notare che il successo della serie e dell’interpretazione di Zingaretti ha creato una specie di zona di influenza reciproca. Per cui Camilleri ha cominciato a cambiare il suo personaggio in funzione di quello televisivo, giocando nei testi ad alludere al personaggio famoso che Montalbano è diventato e viceversa”. Ora, se mai c’è stata una zona di influenza reciproca (che comunque non può che essere stata unidirezionale, nel senso che il romanzo influenzasse la serie), non può essere cominciata sin da subito, perché il primo episodio che nel 1999 va in onda, Il ladro di merendine, è per Camilleri il quinto del ciclo cartaceo e già sono uscite anche due raccolte di racconti montalbaniani. Camilleri comincia a cambiare il suo personaggio in funzione di quello televisivo (ma questo è tutto da dimostrare e occorre tenere conto della perentoria negazione dell’autore stesso) solo dopo che rientra Montalbano Secunno e quindi dopo il 2011, quando Il gioco degli specchi risente ancora moltissimo della presenza di un alter ego accanto al commissario e di un fondo ancora fortemente psicomachico mai visto nella serie Tv.
Peraltro, diversamente da quanto afferma Marrone, Camilleri non allude in alcun romanzo al personaggio famoso che Montalbano è diventato in televisione se non in La pazienza del ragno dove il commissario è ricevuto in casa da una donna che gli dice di vederlo spesso in televisione: con riguardo però alle sue apparizioni in conferenze stampa o luoghi di indagine, dunque con un riferimento soltanto labile e sottaciuto a Zingaretti.
Ma Marrone dice altro: “Nella serie Tv Montalbano è depurato dalle caratteristiche un po’ goffe che disegnano il personaggio letterario”. In realtà è esattamente il contrario: ad apparire goffo se non grottesco, un misirizzi elettrico che si muove a scatti, è proprio Zingaretti mentre il Montalbano di carta, anche per via della sindrome depressiva che lo coglie e lo ghermisce progressivamente, ma pure per essere nato da una costola del compassato Maigret, è tutt’altro che una persona goffa: introversa e riservata semmai, certamente appartata, a disagio perché inquieta, anticonvenzionale essendo eretica, ma definirla goffa vuol dire non avere letto Camillieri. E se ne ha il sincero sospetto in Marrone quando arriva anche a dichiarare che “ne La forma dell’acqua assistiamo a una precisa dichiarazione di intenti letterari. Camilleri si dichiara come una sorta di Sciascia al contrario. Mentre in Sciascia tutto sembra una questione di corna e poi si rivela essere una questione di mafia, in Camilleri è l’esatto opposto: la mafia sembra ovunque, ma in realtà è tutta una questione di corna”. Anche stavolta viene commesso un grave errore di prospettiva, perché Camilleri è forse il principale erede di Sciascia, soprattutto nello sguardo rivolto proprio alla mafia. Per entrambi Cosa nostra è un basso continuo nella vita sociale siciliana, una presenza che dal fondo influenza ogni vicenda umana, che anzi la determina sotto forme diverse:politiche, affaristiche, finanziarie, persino private. E proprio in La forma dell’acqua, se non bastasse il solo titolo, se ne ha un esempio: il ritrovamento del cadavere dell’onorevole Luporello, dato per morto durante un incontro occasionale, maschera in realtà un omicidio di matrice mafiosa sullo sfondo di un intreccio di interessi politici. Ma persino in Il corso delle cose che è del 1978 un caso privato di “corna” adombra un affare di mafia. Così è anche in numerosi altri romanzi di Camilleri fuori dal ciclo di Montalbano, dove comunque la presenza non di un capomafia ma di due boss in lotta tra loro testimonia quanto la mafia sia a Vigata incombente e pervasiva nella vita quotidiana.
Non c’è dunque alcuna dichiarazione di intenti in La forma dell’acqua, il romanzo inaugurale del ciclo che lo stesso Camilleri ha definito mal riuscito, perché Montalbano appare nato con una gamba in aria e mal formato. Né tantomeno è vero quanto poi sostiene Marrone secondo cui la serie Tv è partita non dal primo romanzo, appunto La forma dell’acqua, ma dal terzo, Il ladro di merendine, così da offrire un impatto emotivo molto forte per via di un bambino che mette il rapporto tra Montalbano e Livia alla prova su un tema scottante come l’adozione. A parte il fatto che un impatto emotivo molto forte lo assicurano eccome La forma dell’acqua e Il cane di terracotta (il secondo romanzo nel quale compare in prima persona un boss, Tanu ‘u greco), rappresentazioni dei guasti del potere politico e di quello istituzionale, non è certo il bambino immigrato il protagonista de Il ladro di merendine, ma il sistema deviato dei Servizi segreti e il marcio nell’apparato di Stato. Il ladro di merendine appartiene, con La forma dell’acqua e Il cane di terracotta, alla trilogia del potere che apre il ciclo ed è stato scelto per primo dalla produzione televisiva perché è il più vicino al quarto titolo, La voce del violino, nel quale Camilleri cambia del tutto le squadre in campo al fine di isolare il commissario nel contesto istituzionale in cui opera: cambiano il questore, il capo della Mobile, il dirigente della Scientifica, il sostituto procuratore, il capo di gabinetto del questore. Ci sono in Il ladro di merendine figure come Clementina Vasile Cozzo e il preside Burgio, utilissime in alcune indagini, e c’è il centralinista Catarella, assente in La forma dell’acqua. Va peraltro ricordato che i risultati ottenuti dalla serie Tv, quanto ai primi episodi, furono improntati alla massima confusione, perché nel terzo e quarto episodio (La forma dell’acqua e Il cane di terracotta, i primi del ciclo letterario) le figure di contorno furono quelle dei due romanzi anziché quelle ormai note al pubblico.
Dal canto suo Marrone ha disegnato un Montalbano in contraggenio a Camilleri, un Montalbano che, egli dice ad abundantiam, in Tv non invecchia mai, “secondo un topos tradizionale della serialità” che lo porrebbe “al di là del tempo”, mentre appare evidente a tutti che lo Zingaretti dell’ultima puntata non ha l’aspetto di quello della prima, passati che sono quasi venti anni. Di conseguenza anche il Montalbano televisivo è invecchiato, al pari di quello letterario che Camilleri ha voluto di proposito che portasse i segni del tempo. Ma anche la croce di un suo doppio molto più famoso, per il quale – benché diversissimo – anche i semiologi preferiscono tifare, non fosse altro perché è quello amato dal pubblico televisivo.
IL SOTTOSCRITTO