Il patto di Entente cordiale stretto tra Cinquestelle e Pd, una callida junctura più che un gentlemen’s agreement, è innanzitutto una sfida all’Ok Corral ingaggiata all’interno della Sinistra. Se si accetta, statistiche alla mano, che gli elettori grillini siano in gran parte effetto della vasta emorragia che si è avuta nell’area progressista, l’alleanza di governo appena stabilita non può che prefigurare un regolamento dei conteggi del consenso oggi in comune, ma non più nel campo aperto dello scontro politico quanto al chiuso di un gioco a due attorno allo stesso tavolo.
Da questa partita uscirà la sinistra di domani che conterà o un Pd restituito alla sua grandezza elettorale o un M5s padrone del campo democratico. Ancorché chiamati a collaborare nel governo del Paese, i due partiti hanno l’interesse a neutralizzarsi a vicenda in una disputa che sarà tanto più decisiva quanto più lunga risulterà l’alleanza. La differenza con il governo precedente è nel rapporto di partenariato: mentre la Lega poteva vedere di buon occhio che i grillini crescessero a scapito del Pd, il partito di Renzi e Zingaretti non può accettare che il partner faccia bene nei suoi ministeri più di quanto saprà fare nei propri, perché significherà cedere ai suoi primi concorrenti ulteriori fette del proprio elettorato.
Dunque Pd e Cinquestelle governano insieme facendo a gara a chi fa meglio e soprattutto a chi prende in mano l’iniziativa intestandosi l’azione di governo. Ma con una sostanziale differenza: il Pd è un partito con una forte (anche se corrosa) tradizione ideologica mentre il M5s è un movimento che si dichiara post-ideologico se non anche aideologico. Questo significa che fatica di più un elettore del Pd a votare per Grillo che non un grillino a votare Pd, dove in realtà non farebbe che ritornare. Se le cose stanno così, trova spiegazione la proposta di Franceschini di allargare anche agli enti locali l’accordo con il M5s, allo scopo di spalmare su tutto il territorio nazionale, in un clima di coerenza, lo spirito di un’intesa rivolto al ridimensionamento della Lega, vista come il nemico da battere. Se il Pd riuscirà a compiere questa manovra di accerchiamento avrà preparato la migliore strategia destinata a silurare gli avversari storici grillini: e questo in forza proprio di un fondamento che ai Cinquestelle manca e cioè il patrimonio ideologico.
I Cinquestelle si valgono di programmi contingentati e non organici – dal reddito di cittadinanza al dimezzamento dei parlamentari – in un’ottica pragmatica che di per sé non può non avere il fiato corto, mentre il Pd può contare su visioni e prospettive di scenario capaci di immaginare interventi di lunga durata. E’ per questo che il Pd ha ragione di temere più Forza Italia, retaggio di un grande colosso ideologico qual è stata la Dc, benché oggi ben poco temibile, che spinte populiste come la Lega, al pari di Cinquestelle priva di reale sostanza ideologica che non sia quella passatista della destra reazionaria.
Cinquestelle sta cadendo nella trappola, ma forse presagendola. Non a caso Di Maio, parlando del nuovo governo si rifà continuamente a quello caduto accusando Salvini di averlo affossato e comportandosi come chi si fidanza con una nuova ragazza e parla sempre di quella di prima. Ai Cinquestelle è più congeniale stare con la Lega che non con il Pd perché è più praticabile un’azione comune tra partner che hanno pochi paletti e precetti, meno credi da osservare e meno storia da rispettare. Due forze post-ideologiche hanno più possibilità di intendersi di due una sola delle quali sia tale. Dando il suo benestare all’alleanza, Matteo Renzi ha dunque compiuto il suo più machiavellico capolavoro: salva la propria egemonia in Parlamento, tira fuori il Pd dalle secche, mette all’angolo la Lega e prepara il requiem ai Cinquestelle. I cui ondivaghi elettori, se il Conte bis farà bene, troveranno di dover riconoscere meriti al partito originale della sinistra piuttosto che alla copia surrettizia e avventizia.
IL SOTTOSCRITTO