“Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno”: nel 1985 Isaac Asimov completò le quattro leggi della robotica, per dare una specie di “costituzione” ad un mondo che il visionario scrittore russo vedeva affermarsi in un futuro non lontano. Quest’ultimo fine settimana, a distanza di trent’anni, l’élite del mondo si è riunitaa Davos in Svizzera, per discutere come governare una nuova rivoluzione industriale che, spinta da tecnologie che hanno un potere trasformativo superiore a qualsiasi politica, sta per cominciare. Nel mondo nuovo che questa mutazione sta preparando, è perfettamente possibile sia che i robot ci rechino danniai quali difficilmente potremmo sopravvivere, sia che, invece, ci consegnino la soluzione delle contraddizioni di un modello di sviluppo che sembra essersi impantanato in una stagnazione secolare.
Ma quali sono gli effetti che una drastica accelerazione del progresso può avere sulla quantità di lavoro, sul benessere e sulla sua distribuzione, sulla stessa produttività che – per un paradosso che gli economisti conoscono bene – non sempre reagisce positivamente alla diffusione dei computer?
La discontinuità vera che stiamo per affrontare, sta, in realtà, nella fusione di ben due rivoluzioni(ed è ciò che rende formidabile il balzo) che, finora, hanno marciato quasi in parallelo. Da una parte c’è Internet che ha reso possibile, come per l’invenzione della stampa, la riduzione drastica dei costi di accesso all’informazione e che sta, dunque, producendo una grande riallocazione del potere che all’informazione è legato. Dall’altra, gli avanzamenti molto più silenziosi che stanno per rendere possibile la costruzionedi macchine capaci di assemblaremolecolee non più pezzi e che possono consentire un balzo avanti nei processi produttivi simile a quello dei telai meccanici attorno ai quali nell’ottocento organizzammo le fabbriche moderne. Informazione e materiali stanno per convergere e le prossime tappe della mutazione sono quelle che vedranno connettersi tra di loro, dopo i computer, prima gli oggetti (dai frigoriferi alle lampadine che consumeranno molto di meno) che diventano intelligenti; e, poi, i corpi che, teoricamente, potranno essere sorvegliati (evitando milioni di morti per infarto, ad esempio) e riparati in automatico. Cosa succederà, però, in questo mondo nuovo alle categorie economiche alle quali siamo abituati? Come verranno ridistribuiti i guadagni di efficienza che le macchine promettono e chi verrà colpito dai costi dell’adattamento?
A Davos la battuta più divertente e inquietante è stata quella dell’amministratore delegato di una delle imprese che stanno sostituendo le catene di montaggio con software avanzato: nella fabbrica del futuro ci saranno due soli dipendenti; un uomo che darà pasto ad un cane ed il cane, appunto, il cui compito sarà evitare che l’uomo tocchi i macchinari. Ma non meno imminente è la valanga che si sta per abbattere sui servizi privati e pubblici: già oggi i vigili urbanihanno la sensazione sempre più forte che telecamere e droni stanno per prendere il loro posto, mentre le automobili senza autista renderanno, del tutto, obsolete, persino, innovazioni difficili come quella di UBER: basterà che una città o un Paese dimostri quanto si possa risparmiare ottenendo molto di più, per innescare un processo di imitazione al quale sarà difficile resistere.
Ciò avrà, come sempre è successo per le precedenti rivoluzioni industriali, l’effetto di spiazzare molti lavori, ma anche di crearne altri: stavolta però cambia la scala e la velocità della trasformazione. Secondo uno studio dell’università di Oxford a rischiare sono tutti quelli – non solo operai, ma anche impiegati, tanti dirigenti e, persino, professionisti – che fanno lavori che possono essere riprodotti in una routine: il 50% dei posti di lavoro sono a rischio e questa percentuale risulta, peraltro, differenziata per Paese arrivando ad avvicinarsi al 70 in un Paese come l’Italia che ha, già bassi tassi di occupazione. Ad essere colpiti – attraverso la disoccupazione o salari stagnanti – saranno le classi medie dalle quali, da sempre, dipende quel consenso sociale minimo di cui un qualsiasi sistema economico ha bisogno e che sta già venendo meno dappertutto (persino negli Stati Uniti che, pure, sono l’economia in maggiore salute).
Seppure, insomma, le società, prima o poi, trovano nuovi più avanzati equilibri, non è detto che, stavolta, nel percorso non si rischino incidenti che possano far saltare equilibri che già appaiono instabili. Bisognerà incoraggiare l’invenzione di nuovi lavori, professioni più creative e meno incorporabili in una procedura e su questo l’Italia, se avesse coraggio, dovrebbe avere una maggiore capacità di adattamento. Ma, forse, saremo costretti – è già successo nella storia – anche ad arrenderci all’evidenza di dover lavorare di meno e sostituire il lavoro con altre forme di partecipazione sociale e distribuzione della ricchezza che un sistema economico produce.
Non è detto, del resto, che l’aumento di benessere che la tecnologia può produrre, necessariamente verrà misurato in termini di maggiore prodotto interno lordo o produttività: i computer, ad esempio, consegnano a tutti benefici in termini di tempo, socializzazione e conoscenza che non sono, per loro stessa natura, necessariamente monetizzabili. Non meno preoccupanti, infine, sono le considerazioni – ormai non più appartenenti alla fantascienza – sulla vulnerabilità di un sistema che connetta, letteralmente, esistenze che possono essere manipolate.
E, tuttavia, il progresso va avanti, nonostante i problemi concreti e quelli (abbastanza accademici) di non saperne misurare i benefici. Perché può risolvere malattie antiche (dall’inquinamento alla dipendenza da fonti energetiche non rinnovabili). Ma anche perchéil modello di sviluppo del novecento sta esaurendo la sua spinta propulsiva e il rallentamento dell’economia mondiale rischia di diventare – esaurite in Cina e in India le ultime riserve di crescita legate alle logiche tradizionali – una palude. Dalla quale nessuna politica monetariapotrà tirarci fuori, se non troviamo idee radicalmente nuove sulle quali investire liquidità che, altrimenti, produce solo nuove bolle speculative.
L’errore è, però, quello che facevano gli scrittori di fantascienza che provarono a costruire un sistema di regole perfettocon l’intenzione di eliminare rischi che, neppure, conosciamo e che, quasi per definizione, tenderebbe a produrre il proprio contrario. O di voler aspettare previsioni, come se fossimo osservatori esterni di una storia che non ci coinvolge. Ed invece l’esito anche di questa rivoluzione, dipende dalla capacità nostra di capire in anticipo la trasformazione e il ruolo che – come società, Paese, impresa – possiamo giocarvi.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 25 Gennaio