Un mondo nuovo da studiare seppur terribile” è quello che, nelle parole usate da Giulio Sapelli da queste colonne qualche giorno fa, si apre a chi avesse sufficiente energia (ed il “dono divino della giovinezza”) per cercare di comprendere fenomeni vasti come quello che lega l’anemica ripresa dell’Europa al poderoso rallentamento della locomotiva cinese. Fenomeni che sono solo in parte economici, laddove anzi l’economia sembra dipendere e, contemporaneamente, condizionare la politica e i sentimenti delle opinioni pubbliche.
Ha ragione Romano Prodi quando ricorda che, paradossalmente, l’Italia rischia meno della Germania proprio perché meno di altri Paesi è riuscita negli anni scorsi ad agganciarsi ai grandi treni dello sviluppo globale. Tuttavia, è altrettanto vero che il dimezzamento della crescita della Cina può avere conseguenze di lungo periodo molto più gravi di quelle che la gran parte degli analisti stima, fino al punto da poter segnalare l’inizio della fine di quel processo cominciato all’inizio degli anni novanta e al quale gli storici hanno dato il nome di globalizzazione. Se così fosse le conseguenze per la politica economica dei singoli Paesi e dell’Unione Europea sarebbero devastanti obbligandoci a ripensare obiettivi e strumenti di un ordine globale che si sarebbe definitivamente sfaldato.
I numeri sono, del resto, chiari e consolidati. La Cina che, da sola, ha prodotto dall’inizio della crisi nel 2007 più crescita di sette grandi potenze ad industrializzazione consolidata (G7) messi insieme, sta per dimezzare al 6% il tasso di sviluppo della sua economia rispetto ai livelli ai quali ci aveva abituato nella prima decade del duemila; due (Brasile e Russia) degli altri quattro giganti (BRICS) ritenuti, fino a poco tempo fa, capaci di trascinare il resto dell’economia mondiale, sono in profonda recessione.
Ma ancora più rilevante – e pochissimo discusso – è il dato sull’andamento degli scambi commerciali tra Paesi la cui ascesa è sembrata fino a qualche anno fa fenomeno irreversibile.
In Cina l’atterraggio morbido del tasso di crescita dell’economia , è stato anticipato dalla caduta ben più verticale delle esportazioni – il motore del miracolo cinese per venticinque anni – che sono diminuite rispetto allo scorso anno dell’8,3%. Come per effetto di una forza uguale ma contraria, la Cina tuttavia, da un anno, riduce anche le importazioni (-8,1%) e ciò rischia – se il trend si confermasse con questi ritmi – di chiudere nuovamente l’Impero di Mezzo nell’isolamento nel quale periodicamente sprofonda e di inguaiare la Germania che più di qualsiasi altro Paese del mondo ha puntato sulla Cina.
Del resto, se è vero che un tasso di crescita del PIL del 6% è venti volte superiore a quello che sarebbe stato salutato con soddisfazione dal ministro dell’Economia Padoan in Italia venerdì scorso; è altrettanto vero però anche che è molto più complicato governare una frenata così brusca, che oscillare di qualche decimale in più o in meno da un trimestre all’altro. Per la Cina diminuire la velocità può significare andare fuori strada per effetto di una forza centripeta che, da sempre, minaccia un Paese così vasto. Individui e imprese, ad esempio, hanno avuto aspettative così forti di crescita senza fine, da aver quadruplicato, come nota uno studio di McKinsey Global Institute, l’esposizione nei confronti delle banche fino a raggiungere un volume di debito privato che rispetto al PIL è, persino, più alto di quello fatto registrare in Paesi come l’Inghilterra o gli Stati Uniti nei quali famiglie e aziende sono abituate a consumare a debito l’attesa di redditi futuri e a scontare gli eccessi con crisi di liquidità come quella spaventosa del 2007.
Il fenomeno, del resto, non è solo cinese. Se – come ha notato recentemente il Fondo Monetario Internazionale – per tutti gli anni novanta e duemila, ad ogni punto in più del PIL del Mondo corrispondeva un incremento del volume del commercio mondiale di due punti e mezzo, negli ultimi cinque anni tale valore si è ridotto a 0,7 punti per ogni punto addizionale di crescita economica globale. Del resto, gli ultimi dati ISTAT dicono che il motore delle esportazioni che, per tutto il lunghissimo periodo di contrazione dell’economia italiana, aveva continuato a girare, si è improvvisamente fermato, proprio mentre la domanda interna si è svegliata dal letargo. Se il PIL rallenta, ancora più velocemente si stanno chiudendo i Paesi e le macro Regioni del mondo (Europa, Asia, Americhe) e sta rallentando quel fenomeno – la globalizzazione – alla cui inevitabilità ci eravamo tutti abituati.
Diminuiscono, infatti, esportazioni ed importazioni, ma, contemporaneamente, si stanno disintegrando alcune delle catene di produzione globali più complesse e più focalizzati diventano gli investimenti esteri. Soprattutto cresce ovunque, la diffidenza nei confronti dello scambio di informazioni e simboli che continua ad attraversare il mondo digitale; e aumenta il risentimento nei confronti delle migrazioni di donne e uomini che sono un tratto essenziale della mondializzazione che ha accompagnato per vent’anni, dal crollo del muro di Berlino, il periodo di più lunga e poderosa crescita dell’economia mondiale.
“La fine della globalizzazione” è il titolo di un libro dell’Agosto del 2001 che uno storico dell’università di Princeton, Harold James, pubblicò osservando segnali premonitori che sembravano anticipare il ripetersi di ciò che successe nel mondo dal 1920 prima che i nazionalismi precipitassero la storia nella Grande Recessione e poi nella Guerra. Poche settimane dopo, due torri che ambiziosamente qualcuno volle chiamare “il centro del commercio mondiale” (World Trade Center) furono abbattute da terroristi capaci di colpire l’Occidente usando le sue stesse armi.
Non è solo questione di economia. Anche se l’economia crea l’urgenza di un profondo ripensamento strategico, perché è ovvio che con la domanda interna non si va molto lontani.
E’ una questione molto più profonda di apertura che non ha alternative se vogliamo continuare a vivere in società che garantiscano a tutti un’opportunità. Ma anche di apertura intelligente, perché la globalizzazione degli ultimi vent’anni è avvenuta al prezzo di un aumento altrettanto esponenziale delle diseguaglianze (secondo il Credit Suisse, l’8,7% della popolazione mondiale possiede l’85,3% della ricchezza del mondo) all’interno dei Paesi (dagli Stati Uniti alla Cina); e di un deterioramento progressivo della capacità delle persone di influenzare concentrazioni di potere sempre più opache. La contraddizione tra globalizzazione dell’economia e politiche che rimanevano sempre più nazionali e impotenti sta, probabilmente, esplodendo. E, su questo ha ragione chi – riecheggiando i toni del “mondo nuovo e coraggioso” di Huxley – ricorda che il primo dei nostri problemi è un vuoto di conoscenza che abbiamo accumulato perdendo tempo nella contemplazione della complessità e che è indispensabile colmare per cercare soluzioni nuove.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 22 Agosto