Editoriale da santalessandro.org
Settimanale on line della Diocesi di Bergamo
Sabato, 14 gennaio 2023
Giovanni Cominelli
PRESIDENZIALISMO. CHI NE HA PAURA?
Non pare che i cittadini, variamente interpellati via sondaggio, l’ultimo è quello di Ilvo Diamanti su Repubblica – XXV rapporto su Gli Italiani e lo Stato, curato da LaPolis-Università di Urbino e Demos – abbiano paura del presidenzialismo. Pare, anzi, che i due terzi siano favorevoli. Ovviamente, allo stadio attuale della discussione, il cittadino medio ha idee confuse sul contenuto istituzionale specifico nascosto dentro quel lemma. E probabilmente neppure Giorgia Meloni ha le idee chiarissime al riguardo. Al momento, almeno per la Meloni, funziona più come “signaculum in vexillo”. Ma per le persone “quotidiane” il senso è chiaro: vogliono un governo “capace” di risolvere problemi. La “durata” è una delle condizioni della capacità. Si può avere un governo composto dagli uomini migliori del Paese, ma se la sua durata è quella di una rosa che sfiorisce in un mattino, allora il governo diventa “incapace”. Vogliono un governo “forte”, cioè, in primo luogo stabile. Che non significa “dittatoriale”, ma semplicemente che, una volta registrate le domande, i problemi, le istanze, poi devono arrivare risposte nette e decidenti. “De-caedere” vuole dire “tagliare via”. Operazione dolorosa, ma necessaria di chi deve fare delle scelte.
La crisi di legittimazione della democrazia in tempi di globalizzazione ha molte cause sociali e culturali, a seconda delle storie e della geografia, ma certamente la causa principale é l’ “impotentia gubernandi”. In Italia, è stata determinata dalla caduta catastrofica del sistema dei partiti, che non è la conseguenza del populismo, ne è la causa. Nell’ultimo decennio, appunto caratterizzato dall’ascesa dei populismi e dei sovranismi, alcuni leader politici italiani erano soliti indicare l’autocrazia russa o cinese come modelli di governo: loro sì che decidono in fretta! Se da noi occorrono decenni per progettare e costruire un ponte, un ospedale, un edificio pubblico, in Cina il governo decide e tre mesi dopo ecco il ponte, l’ospedale, l’edificio pubblico! Le recenti prove delle autocrazie a proposito di Covid o di guerra si sono dimostrate meno brillanti. Ma questo non toglie urgenza e legittimità alla domanda di governo che sale dal Paese. E’ una domanda di certezze, che diventa più insistente quanto più aumenta l’incertezza globale. Nel “caos” globale, difficilmente governabile, si tratta di costruire isole di “cosmos”, le cui dinamiche e i cui destini siano prevedibili, almeno per quattro/cinque anni, dalle famiglie, dalle imprese, dai giovani. Non certo grandi pretese! Dunque, sì, il popolo vuole un governo forte.
Dopo il fallimento del referendum Renzi del 2016, a sinistra e a destra si era abbandonato il tema dell’istituzione-governo. Sulla rappresentanza, viceversa, il M5S era riuscito a far passare la riduzione del numero di parlamentari, grazie all’accordo con la sinistra. L’avvento della Meloni ha costretto a riaprire il capitolo “forma-di-governo”. E qui s’avanza, di bel nuovo, la legione dei costituzionalisti e degli opinionisti.
Il ventaglio delle posizioni è esteso. Alcuni temono le pulsioni/nostalgie autoritarie, che starebbero dietro a quella domanda. L’edificio istituzionale, progettato nel 1946-48, è sostanzialmente solido. Si tratta, semmai, di usare il cacciavite: sostituire i bulloni arrugginiti, stringere quelli allentati. Enzo Cheli sostiene che occorre sì aggiustare alcuni meccanismi istituzionali, ma la questione più urgente è quella del sistema politico. La paralisi istituzionale è dovuta alla fragilità delle radici dei partiti nella società. La loro fragilità mina le istituzioni. Bisogna riformare i partiti. Sfugge a Enzo Cheli che la forma-partito è diventata fragile, perché piegata dentro un sistema istituzionale nel quale conta di più il saper rappresentare che il saper governare. I partiti hanno fondato le istituzioni, ma le istituzioni ha retroattivamente formato/deformato i partiti nella prospettiva del governo debole. Per altri, si deve rafforzare il governo, magari con la sfiducia costruttiva, ma comunque deve rimanere un rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento. Per altri, la soluzione è il premierato, già propagandata da M. Duverger: il capo del governo deve essere eletto direttamente dai cittadini, il Presidente della repubblica resta, a garanzia democratica dell’intero sistema. Per altri ancora, il modello francese di semipresidenzialismo è il più efficiente: i cittadini scelgono, con voto a doppio turno, il Capo dello Stato e un mese dopo il Parlamento. Il Capo dello Stato dà l’incarico ad un Primo ministro di andare a cercarsi la maggioranza nel Parlamento. Il quale non può sfiduciare il Presidente, per la semplice ragione che il Presidente non è stato eletto dai parlamentari, ma dai cittadini. Il dibattito ferve. Resta aperta questione dell’Autorità di garanzia, che oggi è tipica della Presidenza della Repubblica.
Dietro a queste differenti ipotesi accademiche si agitano i partiti. Se i costituzionalisti/opinionisti stanno nelle retrovie, i partiti sono in prima linea, con la loro paura: quella di perdere una fetta rilevante del potere. La nomenklatura dei partiti – eletti, apparati, intellettuali, grand commis e addetti in servizio nelle molteplici casematte delle amministrazioni statale e locale, clientes vari – verrebbe disossata da un riforma costituzionale, per la quale gli elettori scegliessero direttamente il premier o più radicalmente ancora il Capo dello Stato, secondo il sistema francese. Perderebbero il controllo del governo. Ma parzialmente anche della rappresentanza, qualora si eleggessero i deputati con il sistema del doppio turno. La forma-partito sarebbe costretta a modifiche radicali e ad un rapporto diverso, più esigente, con gli elettori.
Tutti i partiti hanno paura? No. Dipende dalla contingente collocazione parlamentare e dal consenso popolare in dote al momento. Quando nel 1998 Prodi era al governo e Berlusconi all’opposizione, la sinistra sostenne nella Commissione bicamerale l’ipotesi francese, perché era sicura di vincere le prossime elezioni. Perciò Berlusconi temeva, simmetricamente, che una riforma presidenziale alla francese avrebbe riconsegnato a Prodi il governo per un decennio. E fece saltare la Bicamerale. Lo scherzo gli fu restituito nel 2006, quando l’Ulivo votò contro la riforma proposta dal centro-destra, che andava in direzione del premierato. Nel 2016, l’intero centro-destra, Salvini e Meloni compresi, condussero una campagna martellante contro la proposta Renzi, che era certamente la meno radicale di quelle precedentemente bocciate: prevedeva la fine del bicameralismo perfetto, la revisione del Titolo V, l’abolizione dello CNEL. Temevano, i due, il futuro Presidente Renzi. Ora Giorgia Meloni propone il presidenzialismo – felice incoerenza! – perché spera di essere la prossima Presidente alla francese. Viceversa la sinistra, a parte il suo settore liberal, ha già aperto le ostilità.
Eppure, se il sistema dei partiti ha bisogno di una nuova legittimazione nella società, deve finalmente rispondere alla domanda sociale fondamentale: quella di avere un governo stabile del Paese. L’art. 138 della Costituzione appare essere la via più breve per elaborare una risposta parlamentare e saggiarla nel Paese.
Tuttavia, difficile che si approdi a qualche risultato, se nel Paese non si generi un movimento di riforma, analogo a quello del Mario Segni lanciò nel Gennaio del 1988 con il “Manifesto dei 31”, con il quale si chiedeva l’introduzione di una legge elettorale uninominale a doppio turno, sul modello francese.
Insomma, serve un mix di mobilitazione politica e di mobilitazione civile. Al momento, tuttavia, non se ne vede.