LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Certe notti, forse troppe

   C’è la Notte della Taranta salentina che quest’anno ha un suo prologo a Taranto il 27 luglio. La pizzica come esorcismo del dramma dell’Ilva: funzionerà mai? Ernesto De Martino ne avrebbe studiato il mistero? E c’è la Notte degli Ipogei «nei Luoghi della Storia dove il Mito diventa Spettacolo» (maiuscole non nostre, ricorrenti negli annunci). Ci sono qua e là nella penisola le cento «notti bianche» del cinema spesso ignare sia di Dostoevskij sia di Visconti. E le Notti della Cultura, intervallate magari dalla Notte in rosa  riservata ai bambini (ma non dormono?) allietata da Erica Mou («No, non dormono»). E la Notte dei claustri: «nelle insonni tenebre, pei chiostri solitari» (Manzoni), oddio non proprio solitari. E la notte dei figli di, quella quasi ogni notte.

Non v’è città o paesino che voglia o possa rinunciare alla «sua» Notte, che un tempo – recitava il Tex Willer della nostra (eterna) adolescenza – era fatta «per dormire o per amare». Adesso invece è concepita per l’evento (in italiano, happening), per il tappeto rosso (in italiano, red carpet), per la fiera (in italiano, kermesse), per l’incontro fra culture diverse (in italiano, métissage), dove recarsi eventualmente condividendo la macchina con gli amici (in italiano, car pooling). Sì, sciacquano i panni in Arno i comunicati stampa assessoriali o associativi, moltiplicando le occasioni di apprendimento e talora di apprensione. Di giorno? Si dorme. Parliamo soprattutto dei giovani, cui nessuno ha ancora fatto il torto di offrire opportunità di lavoro degne di tal nome. Di sera, si sceglie l’abbigliamento (look), magari rubacchiando qualche capo dagli armadi di mamma e papà (vintage), si beve un bicchiere (drink) e via verso una delle tante Notti che allietano l’estate. «Non vedo l’ora di perdermele», avrebbe chiosato Flaiano.

È la cultura delle cicale, con l’inevitabile monotonia del canto, per gli eredi del «popolo di formiche» caro a Tommaso Fiore e a Pasolini. La festa elevata a sistema. Ovvero l’eterno panem et circenses che non contraddice e anzi ribadisce il nostro orizzonte segnato dalla confusione crescente tra esistenziale e spettacolare tipico della realtà spettacolosa (in italiano, reality show). Un paradigma gradito agli enti pubblici, per i quali la Notte, il festival, l’«evento», l’epifania dei poteri e sottopoteri sul palco è finalmente legittimata all’orgasmo del consenso in apparenza impolitico, quindi prezioso per i politici in crisi di credibilità. Per non parlare della stima dell’«indotto» dei festival in termini di presenze alberghiere e di pranzi nei ristoranti, biasimata da Caliandro e Sacco nel saggio Italia Reloaded (il Mulino ed.). Il calcolo – spesso opinabile – viene utilizzato per giustificare le scelte della politica nell’utilizzo dei fondi pubblici, in particolare quelli europei. Oltretutto col risultato di confermare l’esistente, il prevedibile, l’oleografia, il folklore, la maniera, la cartolina, sebbene talvolta «alternativa», la stanca ripetizione in sedicesimo di un nicolinismo irripetibile (Renato Nicolini, comunista, architetto, è morto il 4 agosto 2012; fu a fine anni ‘70 il geniale inventore delle notti romane).

Lungi da noi qualsiasi moralismo, per carità, e che ciascuno si goda la Notte che vuole. Dooby-doooby-doo  per dirla con lo scat  finale del Sinatra di Strangers in the Night. E suggeriamo di non negare un’eco a Ma la notte no di Renzo Arbore: «Ogni giorno è una lotta / chi sta sopra e chi sotta / (Ma la notte no!) /… Ti distrugge lo stress / e dimentichi il sess / (Ma la notte no!)». Per non essere troppo perentori, diremmo: «La notte? Preferirei di no». È il celebre I would prefer not to  di Bartleby, lo scrivano, il protagonista del racconto di Herman Melville (1853) che di recente è tornato in scena e piace molto nei festival. Un’altra occasione per chi proprio non riesce a stare sul balcone o per strada a contemplare il buio. Perché, sapete, c’è anche la notte notte (in italiano, night).

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