LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Cami/Cemevi. Tra dialogo e rischio assimilazione

Fatti

Una questione, tra le altre, tiene banco in Turchia in questi giorni: il progetto di costruzione di un complesso che accolga nello stesso spazio – con stessa entrata e uscita, una mensa comune e spazi separati per la preghiera – una moschea e un cemevi, ossia una casa assembleare e di preghiera degli Aleviti, importante gruppo sub-etnico e religioso. Il progetto è stato lanciato da Fetullah Gülen, il leader spirituale del movimento omonimo, appoggiato dalla Cem Foundation e dal suo leader, İzzettin Doğan, e finanziato da imprenditori privati. La cerimonia di inaugurazione ha già avuto luogo, in grande stile, nel distretto di Tuzluçayır, Ankara, a forte presenza alevita. Salutato da molti come un segno tangibile di dialogo tra la componente sunnita e la minoranza alevita, il progetto è tuttavia anche al centro di critiche feroci e forme di boicottaggio. Per quale motivo?

Il punto è che gli aleviti non sono solo una delle tante minoranze che vivono in Turchia, ma sono una minoranza intra-musulmana, con una storia molto particolare. In realtà, anche che siano minoranza ‘intra-musulmana’ per alcuni è controverso. Etichettati per lo più come una setta sciita o vicini allo sciismo,  sia per aspetti dogmatici che per ritualità si discostano dall’Islam sunnita sotto molti punti di vista, e si auto-comprendono come una religione a se stante. Proprio questo è uno dei punti più controversi dell’intera vicenda: la ferma determinazione nel rifiuto dell’etero-attribuzione della propria identità. Non a caso, è proprio il disconoscimento da parte della maggioranza sunnita di una autonoma definizione dell’alevismo a determinare il conseguente disconoscimento dell’autonomia del luogo principe di incontro e preghiera usato dagli aleviti, il ‘cemevi’, edificio che ricorda la moschea ma privo di minareto. Dal punto di vista sunnita, infatti, l’Islam conosce solo un luogo di culto, la moschea appunto.

Proprio il mancato riconoscimento legale dei cemevi è una delle principali argomentazioni impugnate dai critici del progetto di Ankara. Finché i cemevi non avranno un riconoscimento legale, progetti di questo genere possono avere solo una finalità nascosta e subdola: l’assimilazione degli aleviti, del loro credo e delle loro pratiche, alla maggioranza sunnita. Solo a partire da una condizione di eguale riconoscimento giuridico è possibile il dialogo; diversamente, sotto le mentite spoglie della tolleranza non può che nascondersi l’intenzione di sempre, e cioè appunto l’assimilazione.

La storia dell’alevismo in Turchia in effetti è una storia di reciproci pregiudizi, ma soprattutto di violenza subita da parte della minoranza alevita. È viva e dolente la memoria, da ultimo, del massacro di Siva, nel 1993, in cui 33 aleviti morirono bruciati all’interno dell’albergo Madimak dato alle fiamme da una folla di 20.000 sunniti all’uscita dalla preghiera del venerdì, mentre si celebrava la festa del Pir Sultan Abdal. Dopo anni di annunciate riforme e workshop tesi a risolvere la questione alevita nel segno del riconoscimento e della fratellanza, gli aleviti non solo non hanno visto nessun progresso giuridico relativamente al riconoscimento dei cemevi, ma hanno dovuto subire a tratti addirittura un inasprimento del clima generale nei loro confronti. Da ultimo, alla viglia della protesta di Gezi park, la cerimonia di inaugurazione del terzo ponte sul Bosforo, intitolato – con scelta decisamente infelice da parte del governo – al sultano Yavuz Seim, responsabile secondo gli aleviti nel sedicesimo secolo del massacro di 70.000 membri della comunità. Proprio durante la protesta di Gezi park, gli aleviti hanno giocato un ruolo centrale, riaprendo il dibattito sulla violenza settaria nel paese. Da sempre preoccupati della pressione assimilatrice della maggioranza sunnita, gli aleviti sono stati storicamente grandi difensori della repubblica kemalista, coltivando un vero culto di Atatürk e, politicamente, collocandosi a sinistra nel fronte secolarista, dimentichi della violenza subita nel corso dei decenni dalla stessa repubblica kemalista (come nel caso dei massacri di Dersim ai danni di aleviti curdi negli anni trenta del secolo scorso). Tanto basta, sommariamente, a  spiegare la difficoltà nei rapporti con il partito al governo, espressione della maggioranza sunnita.

Il progetto di costruzione di un edificio unico che accolga una moschea e un cemevi nasce, a non voler fare dietrologia, come un tentativo di dialogo. Che sia segretamente volto all’assimilazione da parte dello stato è ben poco credibile per la semplice ragione che il movimento di Fetullah Gülen, promotore del progetto, non è lo stato. E tuttavia, è vero che un edificio di questo genere non è in sé privo di problemi, come non lo sono mai spazi interconfessionali che pure vogliono essere espressione di pluralismo, riconoscimento e dialogo tra fedi o di fedi entro società con istituzioni secolari. Un leader alevita, per esempio, ha chiesto se la cucina comune continuerà a funzionare durante il Ramadan, mese in cui i musulmani sunniti digiunano, o se l’adhan – il richiamo alla preghiera del muezzin – verrà interrotto quando le feste sunnite e alevite coincidono. Problemi di questo genere sono reali, e l’assimilazione paventata può passare in effetti molto più per pratiche di questo tipo che non per costrizioni dogmatiche. A simili problemi dovrà essere data una risposta, senza però che li si possa pretestuosamente usare come scusa per boicottare quello che rimane un progetto volto a consentire a sunniti e aleviti di pregare insieme, ciascuno a modo proprio.

 

 

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