Capita di incontrare anche nella vita quotidiana, nei contesti più inattesi, problemi che tante discussioni hanno sollevato nel corso della storia della filosofia. Quando la domenica mi lasciavi sempre sola per andare a vedere la partita, il problema della percezione sensibile e dell’apparenza – era o non era rigore, era o non era gol – si risolveva in grandi baruffe in cui ci si schierava a priori a favore della propria squadra. Ma poi venne la televisione e, con la televisione, la moviola – il rallentatore – che consente di vedere qualcosa che nessuno ha mai potuto vedere né mai potrebbe vedere, tantomeno l’arbitro che, come tutti gli esseri umani, non può rallentare la propria percezione visiva.
Nasce così la questione della oggettività, della percezione vera: rigore, fallo, gol si trasformano in situazioni oggettive o potenzialmente oggettive, di fronte alle quali si può parlare con maggiore fondamento di errori dell’arbitro, che viene – per così dire – escluso dal fatto accaduto sul campo di gioco per divenire un giudice che deve aspirare a coglierne la verità, ad adeguare il proprio intelletto alle cose – come direbbe Tommaso -. Oggi le telecamere si sono moltiplicate, sono molteplici e quindi molteplici sono anche i punti di vista che vengono proposti allo spettatore televisivo; e nessuno di quei punti di vista è quello dell’arbitro che per ora non è ancora dotato di una propria personale telecamera. Una pluralità di punti di vista genera una pluralità di dubbi, l’oggettività sembra più fondata e invece tende a svanire nel susseguirsi di apparenze che apparentemente si riferiscono allo stesso fatto, ma in realtà lo scompongono in un modo che ne rende assai ardua la ricostruzione.
Sappiamo perfettamente che per vivere – in questo caso, per guardare la partita – non possiamo dubitare sempre di tutto in modo coerente e radicale. Direbbe Agostino:
Avete … compiuto ogni sforzo per persuadere che il sensibile può esser diverso da come appare. Io comunque chiamo mondo tutto questo, qualunque struttura abbia, che ci contiene e ci nutrisce, questo, dico, che appare ai miei sensi e che da me viene percepito come formato di terra e cielo o apparenza di terra e cielo … Se poi affermi che ciò che mi appare non è il mondo, fai questione di nomi per puntiglio perché io l’ho chiamato mondo. (Contra Academicos 3.11.24)
Ci dobbiamo dunque rassegnare a non inseguire eccessivamente l’oggettività e accettare anche di chiamare rigore quello che appare rigore. Ma dobbiamo infine decidere quali siano le apparenze che entrano a comporre quel fatto. E allora ci aiuta in modo decisivo la tesi di un grande personaggio della storia del calcio italiano, che meriterebbe di entrare anche nella storia delle discussioni sul problema della conoscenza.
Vujadin Boškov, scomparso il 27 aprile scorso e il cui nome è indissolubilmente legato allo straordinario scudetto conquistato dalla Sampdoria nel campionato 1990-91, chiarì in modo definitivo che non si tratta di discutere di possibili punti di vista relativi a un fatto oggettivo, ma di un fatto determinato da un solo punto di vista, che entra a farne parte in termini essenziali, perché rigore è quando arbitro fischia. Grande.
“Agostino divulgava argomenti teologici svolgendoli in forma di commento ai fatti del giorno, ripetendoli e semplificandoli costantemente per quel pubblico non molto colto al quale si rivolgeva.”
Sei in buona compagnia!