Il primo film di fantascienza che sta per scadere, nel senso che il suo tempo di ambientazione si sta avvicinando, è Blade Runner del 1982, che immagina i fatti nella Los Angeles del 2019, fra soli quattro anni. Niente è oggi come è stato immaginato. Un fallimento totale. Il film doppia un altro fallimento già avvenuto, quello del romanzo da cui è tratto. Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick, uscito nel 1968, prefigura una San Francisco simile alla Los Angeles di Ridley Scott, ma colta nel 1992, ventiquattro anni soltanto dopo il romanzo: una distanza temporale più breve rispetto ai trentasette anni posti poi dal film. Ma ad ogni modo, in entrambi i casi, la previsione è clamorosamente caduta nel vuoto. La città futuristica, Los Angeles o San Francisco che sia, abitata anche da extraterrestri in una Terra che ha creato colonie ultramondo, pervasa da una fitta nebbia che è il condensato di un inquinamento senza scampo e abitata da gente di tutte le lingue, ma soprattutto da cinesi (l’unica previsione in qualche modo azzeccata), non c’è affatto neppure come assaggio. Niente delle visioni di Dick prima e di Scott dopo si è realizzato. Un errore di prospettiva facile da commettere nella lunga stagione in cui la science fiction proponeva invariati scenari retrofuturistici, tra avvenirismo e rovine postbelliche, e immaginava un totale regresso della condizione umana fino a stati apocalittici. Dove lo spazio fosse già una conquista, i replicanti una realtà presente sulla Terra e la qualità della vita ridotta a un mero stadio di sopravvivenza, senza più animali e senza più alcuna idea di bellezza.
Per fortuna tutto questo non si è avverato, ma sembrò possibile che lo fosse quando si pensò, in un tempo che appare oggi più lontano a noi di quanto il nostro lo fosse allora, che a pochi anni dal nuovo millennio o agli albori del secondo decennio del nuovo secolo il pianeta potesse essere sconvolto e l’uomo costretto ad adattarsi a un nuovo ambiente e in un nuovo contesto. Ma perché Dick e Scott pensarono ad epoche dopotutto non remote nelle quali collocare un’opera di fantascienza contando di farla credere verosimile? Perché sia l’uno che l’altro non pensarono a tempi molto più distanti quando sarebbe stato più facile rendere realistico un mondo stravolto per via della degenerazione che la specie umana stava imprimendo alla sua esistenza? In tempi in cui (nel ventennio tra i primi Settanta e la fine degli Ottanta che il mondo ha vissuto come una battaglia politica fonte di una nuova presa di coscienza) la salvaguardia dell’ambiente era vista come un imperativo globale – e la degradazione della qualità della vita considerata un fenomeno entropico inevitabile – era alla portata di ogni previsione fissare in un tempo piuttosto breve l’esito esiziale del processo involutivo già in atto.
Un’opera di fantascienza che fosse credibile ma non volesse trasmodare in un neo noir o in un mistery se non in un horror non poteva concepire tempi che superassero il giro di una generazione, come ha fatto Dick, o di una generazione e mezza come ha voluto Scott. Ma probabilmente ha pesato in Scott ciò che invece Dick ha solo intravisto come un’incognita di fondo e cioè il cambio del secolo, che è stato anche il cambio del millennio. Questo elemento, funzionando in modalità distorsiva, ha allungato il tempo interiore in Scott rendendogli possibile immaginare una Los Angeles, che in realtà era concepibile solo in un lontano Tremila, in un 2019 apparsogli dunque lontanissimo rispetto al suo presente. Questo effetto di astrazione del tempo lo visse anche Vitaliano Brancati quando alla figlioletta Antonia, nel 1946, pensò di fare una foto l’anno fino al 2000, età che gli sembrava remotissima. Anche Giorgio Manganelli ebbe questa esperienza.
Quando proprio nel 1982, l’anno di Blade Runner di Scott, scriveva del futuro, immaginava infatti il 2000 come un’età “impossibile”, nella dimensione “di luogo di sogno, dei dadi lanciati nell’aria, dei segni viscerali e delle forme del fumo”, perché il 2000 gli appariva come un futuro non presente nel suo presente essendo un futuro senza futuro. Secondo Manganelli è il futuro che crea escatologicamente il presente: “Chiunque vorrà definire il 1982 dovrà porre in chiaro il modo in cui, nell’82, erano presenti forme, date e categorie del futuro”. Il tempo invale dunque come categoria, “universo popolato di immagini e segni perentori”, teoria che fa dire a Manganelli “che senza il futuro come categoria il presente si sbriciola”: perde consistenza perché non collochiamo più nel futuro quanto ci consente di rimanere nel presente. Il futuro dunque ci crea, ma a patto di immaginarlo dal suo punto di vista, cioè di riuscire a immaginare anche il futuro del futuro, ciò che nel 1982, pensando al 2000, era appunto impossibile. Se non sappiamo quale genere di futuro sarà presente come futuro quando il 2000 sarà arrivato, diceva Manganelli, non avremo il futuro come categoria ma come mero luogo mentale, “dimensione impossibile”. La stessa dimensione, impossibile, sarà apparsa a Scott pensando al 2019 come luogo mentale di un tempo non presente come futuro nel suo presente. Questo gli ha permesso di immaginare lontana e quindi fantascientifica un’epoca che invece è arrivata ed era, oggettivamente, vicina già nel 1982, quando Blade Runner fu girato per la prima delle sei volte successive. Prevedere il futuro quando il futuro sarà arrivato è il compito della science-fiction, alla quale è però richiesto di conoscere bene il presente per immaginarlo. Oggi rivediamo Blade Runner come un film semplicemente del genere catastrofico e apocalittico, non più futuristico, un film anzi sul presente come sarebbe potuto essere ma non è stato o come sarebbe entro una dimensione ucronica e tutto sommato surrealistica. Per questa via il film di Scott, cambiando genere, ci appare un fantasy, tolte le preminenti implicazioni storiche che ne fanno un documento di come eravamo, anzi di come vedevamo il nostro domani più prossimo che remoto.