In Vaticano è arrivata l’ora della “teologia dei poveri”? Può apparire una banalità, almeno per chiunque abbia letto qualcosa del Vangelo e ricordi le Beatitudini. Eppure la teologia dei poveri è un argomento cruciale; “sensibile”. Forse la radice profonda di tanti dubbi è qui. Dunque perchè possiamo dire che forse questa potrebbe essere l’ora, in Vaticano, della “teologia dei poveri”? Vediamo. Era il 13 giugno 2017, cioè pochi giorni fa, quando il Vaticano ha annunciato che il 19 novembre prossimo, in occasione della prima Giornata mondiale dei Poveri, papa Francesco offrirà il pranzo a 500 poveri nell’Aula Paolo VI, dopo aver celebrato la Messa nella Basilica Vaticana. La notizia non avrebbe meritato di essere ripresa se non fosse che proprio quel giorno la Santa Sede ha divulgato il messaggio con cui il papa ha indetto questa giornata. Un messaggio che si conclude con un’affermazione tanto chiara quanto importante: “ Questa nuova Giornata Mondiale, pertanto, diventi un richiamo forte alla nostra coscienza credente affinché siamo sempre più convinti che condividere con i poveri ci permette di comprendere il Vangelo nella verità più profonda. I poveri non sono un problema: sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo.” Cosa ci dice questa frase del documento pontificale di Jorge Mario Bergoglio? Poche righe prima c’è scritto che questa Giornata deve contribuire all’evangelizzazione del mondo contemporaneo… La questione diventa importantissima, forse essenziale. E tenendo a mente che proprio in quei giorni il Vaticano annunciava che è allo studio la scomunica per i corrotti e i mafiosi dobbiamo provare a ripercorrere i punti fondamentali del testo, dall’inizio. Il documento comincia ricordando Giovanni:
1) “ Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. L’amore di Dio, si ricorda, ha due caratteristiche: Dio ama per primo e dando tutto sé stesso.
2) “Questo povero grida e il Signore lo ascolta”. La citazione del salmo serve a ricordare che la Chiesa ha sempre ascoltato questo grido, tanto che Pietro scelse sette uomini per il servizio dell’assistenza ai poveri, una sorta di biglietto da visita della Chiesa: il servizio ai poveri. “Vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. Gli Atti degli Apostoli già ci portano oltre il noto “assistenzialismo” e la citazione di Giacomo chiarisce: “Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?” Per questo Francesco cita San Francesco, che “non si accontentò di abbracciare e dare l’elemosina ai lebbrosi, ma decise di andare a Gubbio per stare insieme con loro”.
3) Eccoci così al primo vero punto: “se vogliamo incontrare realmente Cristo è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri.” E la citazione di un padre della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, fa chiarezza: “non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità”.
4) Dunque la povertà è un “valore”: significa umiltà di cuore, ma anche metro valutativo dell’uso dei beni materiali, e scelta di un metro di vita non possessivo dei legami e degli affetti.
5)Ne consegue una affermazione decisiva: “ se desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarlo dalla loro condizione di emarginazione.”
6) Ma di chi stiamo parlando? E’ il momento di dare un volto alla povertà d’oggi: contro vili interessi ci sono i volti di chi subisce torture, prigionie, guerre, privazione della libertà, della dignità, che patisce ignoranza, analfabetismo, emergenza sanitaria, disoccupazione, tratta, schiavitù, esilio, miseria, migrazione forzata. E intanto “la ricchezza sfacciata si accumula nelle mani di pochi privilegiati, spesso si accompagna all’illegalità e allo sfruttamento”. Ecco dunque chi c’è oggi sul lato opposto della storia ( e qui il nesso con la scomunica di corrotti e mafiosi diviene evidente), ci sono tutti gli altri, questi volti, che Paolo VI amava dire che “appartengono alla Chiesa per diritto ecclesiastico e obbligano all’opzione fondamentale per loro.”
L’invito di papa Francesco è quindi duplice: vuole con questa giornata mondiale dei poveri stimolare la Chiesa e i credenti a reagire alla cultura dello scarto e stimolare tutti gli uomini di buona volontà, al di là della loro appartenenza religiosa, perché si aprano alla condivisione con i poveri.
Dunque in questo papa Francesco parla contemporaneamente ai suoi fratelli nel battesimo e ai suoi fratelli in umanità. E ai suoi fratelli nel battesimo non dice che è giunto il momento di aprire una riflessione teologica, di cominciare a camminare insieme sul cammino della teologia dei poveri? Nel documento Bergoglio scrive: “Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta a settimana.” Pratica che non biasima ma che nella sua Chiesa lui vorrebbe sostituite da “un vero incontro che diventi stile di vita”.
I poveri, par di capire, indicano la citata umiltà, ma richiamano anche all’ingiustizia da sconfiggere, alla cultura della condivisione da promuovere.
Dio, l’onnipotente, ha scelto di farsi povero. Vuol dire qualcosa o no? Vuol dire che ha rifiutato di farsi ricco? O vuol dire che nella carne di chi ci invita all’umiltà e alla correzione delle ingiustizie sociali, della cultura dello scarto, della corsa all’accaparramento, della possessività, c’è il vero volto di Cristo? L’Israele biblico non è la risposta di Dio, la Terra Promessa, a un popolo schiavo? Non è questa la base assunta dalla conferenza dell’episcopato latino-americano di Medellin che capì il confronto tra Paesi ricchi e Paesi poveri come il prodotto del nesso causa-effetto dell’ingiustizia e non più, come si sarebbe voluto, dell’esempio dei popoli più avanzati offerto a quelli più arretrati? Un discorso coerente con la famosa celebrazione alle Catacombe di Domitilla di un famosissimo latinoamericano che Bergoglio apprezza, l’arcivesco Dom Helder Camara, e che per primo indicò nell’ “opzione preferenziale per i poveri” la bussola della nuova Chiesa: o più semplicemente con quanto scritto da Paolo VI: “i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia”. Era il 1967 e Jorge Mario Bergoglio stava per diventare, appena due anni dopo, sacerdote. Dunque oltre a una chiara lettura evangelica c’è l’anima conciliare della chiesa latinoamericana al centro dell’azione odierna di papa Francesco. E il suo ex padre generale, Pedro Arrupe.
Nel giugno del 2017 papa Francesco ha detto chiaramente che è finita l’epoca costantiniana, è finita l’epoca della “cristianità”, di alleanze trono-altare. E l’ha detto andando a rivendicare la genuinità evangelica di don Milani e di don Mazzolari, richiamato undici volte dal Sant’Uffizio, l’ultima anche post-mortem. E quale epoca si è aperta? Come ha affermato Raniero La Valle “a me piace pensare che cominci una nuova epoca della storia del mondo e della storia della salvezza, e che questa sia l’epoca preannunciata da Gesù al pozzo di Giacobbe, in cui gli uomini non adoreranno Dio sui sacri monti e a Gerusalemme, ma adoreranno il Padre in spirito e verità. E riconoscere Dio come Padre, ha detto il papa nell’udienza dell’ultimo mercoledì (7 giugno 2017), è una rivoluzione, e proprio questa è la rivoluzione cristiana.”
Questa Chiesa, la Chiesa post-costantiniana di papa Francesco, più che alla verità, alla legge, pensa alla via. E così il suo primo beato, cosa che Mazzolari e Milani ancora non sono, sembra essere monsignor Romero, arrivato agli onori degli altari trentacinque (sic!) anni dopo il suo martirio. Tanto tempo per tutti, ma soprattutto per un prelato ucciso sull’altare mentre celebrava. Si è trattato di trentacinque anni il cui trascorrere è risultato indispensabile a chiudere l’epoca costantiniana anche con la forza del suo sangue, che fa ricordare di Rutilio Grande, il predecessore di Romero, assassinato prima di lui, e di padre Ellacurìa, assassinato con altri cinque gesuiti dopo di lui, sempre in Salvador -sul finire degli anni Ottanta- perché, come Romero, si ostinava a vedere il vero volto di Cristo in quello di chi era vittima dell’ingiustizia e dell’esclusione sociale.
Il pranzo che il 19 novembre avrà luogo in Vaticano sembra assai meno rilevante di tutto questo. L’opera “caritatevole” resta al centro della vita della Chiesa, ma non lo esaurisce, va a incardinarsi in una nuova prospettiva teologica, la teologia dei poveri, quella di cui si parlò anche al Concilio, in particolare con le parole del cardinale Lercaro, e alcune indicazioni contenute nella Lumen Gentium. Un discorso che sembra sia giunta l’ora di riprendere più che di archiviare. Legandolo alla scomunica dei corrotti e dei mafiosi (nel mondo) e ai discorsi pronunciati nei luoghi di “sofferenza” di don Mazzolari e don Milani se ne comprende meglio la portata.
Nostro Signore Gesù Cristo non ha scelto di essere povero. Non poteva essere ricco poiché nelle ricchezza risiede la contrapposizione al Suo regno di Pace di Giustizia e di Verità per l Vita che il Signore ci ha dato. Ciò non significa che dobbiamo essere tutti poveri per appartenere a Lui, ma che inseguire e conservare la ricchezza, finchè c’è un povero sulla faccia della terra espone veramente alla scomunica ed alla perdita della Grazia del Signore.