C’è oggi una nuova teologia della liberazione che riguarda tutti; è una teologia di piazza, fatta in piazza, di tante piazze e in tante piazze diverse. Alcuni l’apprezzano, altri la disprezzano.
Cosa è successo? E’ successo che proprio in queste il patriarca caldeo, il cardinale Louis Sako, ha annunciato che per il Natale 2019 a Baghdad lui non vuole luci né addobbi, per commemorare le vittime di piazza, in gran parte musulmani, tutte uccise da cecchini di regime. Lì in piazza, per lui, stanno scrivendo la teologia della liberazione, a Baghdad come a Beirut. I morti nella capitale irachena sono stati 350 in 60 giorni di proteste pacifiche, 5,83periodico morti al giorno. Louis Sako sa bene chi c’è in piazza.
Nelle stesse ore apprendiamo che Papa Francesco ha detto che lavorare con i profughi è un “luogo teologico”. Lo ha detto a Bangkok, parlando con i gesuiti. Ecco le sue parole: “Per i gesuiti il lavoro con i rifugiati è diventato un vero e proprio «luogo teologico». Lo considero così, un luogo teologico.” Il lavoro con i rifugiati per chi sceglie la Compagnia di Gesù è un luogo teologico… Ricordate le grandi cause di fondo dell’enormità del fenomeno a livello planetario, Francesco ha toccato il punto per lui decisivo, la conseguenza di quella filosofia della difesa che ci fa credere che solo con paura e frontiere si può ci si può difendere: “I rifugiati sono materiale di scarto. Il Mediterraneo è stato trasformato in un cimitero. L’impressionante crudeltà di alcuni centri di detenzione in Libia mi tocca il cuore. Qui in Asia tutti conosciamo il problema dei rohingya. Devo riconoscere che alcune narrative che ascolto in Europa sulle frontiere mi scandalizzano.” Francesco non vuole fermarsi, non può farlo, perché rohingya e Mediterraneo non sono tutto. “Da altre parti ci sono muri che separano persino i bambini dai genitori. Mi viene in mente Erode. E per la droga invece non ci sono muri che tengano.” Impossibile che chiudesse questa risposta a un gesuita che lavora a Bangkok senza riferisci a quanto lì disse il fondatore del Jesuit Refugee Service, padre Pedro Arrupe: “Il discorso che qui a Bangkok aveva rivolto ai gesuiti che stavano lavorando con i rifugiati è stato quello di non trascurare la preghiera. Dobbiamo ricordarlo bene: la preghiera. Come dire: in quella periferia fisica non dimenticatevi di quest’altra, quella spirituale. Solo nella preghiera troveremo la forza e l’ispirazione per entrare bene e con frutto in quelli che sono i «pasticci» dell’ingiustizia sociale.”
E’ chiaro che queste due fermenti teologici sono un fermento solo. Il movimento teologico di cui ha parlato il patriarca Sako è quello delle piazze di Baghdad e Beirut di questa fine del 2019, piazze interconfessionali in protesta senza sosta e non violenta contro regimi settari, confessionali, corrotti. Ma si è manifestato anche in Sudan, Algeria, Cile, Egitto, Ecuador, Iran, non potendo citare i paesi direttamente in conflitto, o casi diversi come quelli di Italia, Spagna, Hong Kong. Fare teologia in piazza ci fa ricordare che la teologia se non è di liberazione difficilmente può essere considerata teologia. Dunque per me è un movimento ispirato dal processo di elaborazione di una teologia della cittadinanza. Bergoglio, quando era cardinale, era molto vicino a quella corrente teologica chiamata “teologia del popolo”. Ora a mio avviso sta sviluppando la teologia della cittadinanza. Che parte da due parole: pluralismo e fratellanza. I padri e le madri di questo movimento che il cardinale Sako vede nelle odierne piazze libanesi e irachene infatti sono nel “luogo teologico” indicato da Bergoglio: nelle periferie urbane e tra i fuggiaschi, nei barconi del Mediterraneo, in tante altre rotte interne al continente africano, lungo la cosiddetta rotta balcanica, dove qualche autorevole prelato si è schierato con i regimi, alle volte cingendo i loro paesi col filo spinato rappresentato da una catena di rosari distesi lungo i confini per chiuderli allo “straniero”. Questi genitori erano anche nel deserto che divide Messico e Stati Uniti, in tante aree del sud est asiatico, a ridosso dei confini del Venezuela. Tutte queste aree di coltura della nuova teologia e i suoi luoghi-simbolo lui li ha visitati. E’ stato ai confini amazzonici, è stato a quelli venezuelani, è stato al confine tra Messico e Stati Uniti, è stato a Lampedusa e Lesbo, le due Berlino del Mediterraneo, è stato nei campi profughi del Bangladesh, è stato in Centrafrica, dove ha proclamato Banguì capitale spirituale dell’umanità, è stato nella penisola arabica. E ha detto di vedere in chi vuole separare i profughi in fuga dai loro figli che li accompagnano un nuovo Erode.
Cosa avrà detto questo suo pellegrinaggio nei principali santuari dell’umanità senza cittadinanza? A me sembra chiaro: ha detto che in questo nostro tempo così tumultuoso, pieno di rabbie e di paure, solo il pluralismo e la fratellanza produrranno ovunque la cittadinanza, i diritti di cittadinanza. Perché proprio il pluralismo? Per rispondere dobbiamo tornare alle proteste non violente di tanti sudamericani, di tanti turchi, di tanti arabi, di tanti iraniani, di tanti in Africa, o nell’Estremo Oriente e anche qui in Europa: in così tanti uomini e così tante donne che osano scendere in piazza a volto scoperto, senza armi, contro regimi dittatoriali, corrotti, predatori, per chiedere i diritti di cittadinanza senza dividersi lungo linee di demarcazione etniche o confessionali, anzi unendosi in una rivendicazione comune, non c’è un sussulto per il pluralismo? E non vediamo che il suo impegno quasi solitario -dico quasi perché so che non è così, ma so anche quanto sia indigeribile a molti- per gli esiliati, i profughi, i migranti di ogni fede e di ogni colore, è in sintonia con questo nuovo movimento di massa e globale di piazze non violente? E i profughi… non sono un movimento che porta musulmani a cercare la salvezza in paesi cristiani, genti del sud a chiedere soccorso a genti del nord, neri che si protendono verso i bianchi, mentre tanti altri vogliono spiegarci che in tutto questo c’è un’aggressione, un pericolo e che comunque “noi” dobbiamo venire prima degli “altri”? Questo “noi” e “loro” non mira a smantellare l’idea di fratellanza? E la sua denuncia che “questa economia uccide”, nota in tutto il mondo, non avrà affermato un’obiettiva autorità morale globale che le autorità immorali non possono sopportare? Le autorità immorali non sono solo laiche… Guardiamo sulla cartina dove sono i Paesi di cui abbiamo parlato: non sono quasi tutto il Global South? Le piazze di cui parliamo non sono la piazza di quel mondo predato, colonizzato, incendiato, saccheggiato, affamato, governato da corrotti più corrotti dei corrotti? Sì… Per me è evidente che dopo il papa dell’Est è arrivato il papa del Global South, e l’altro muro vacilla… E chi segue Bergoglio nel Global North non vuole mettere altri mattoni in questo muro, ma aprirci finestre.