Quando è cominciata la nuova crisi libanese? Lo sanno tutti, ma non tutti lo ricordano. E’ cominciata quando il primo ministro del Libano, Saad Hariri, ha ricevuto il consigliere del leader supremo della rivoluzione iraniani Ali Velayati. Di lì a breve Hariri ha preso l’aereo ed è voltato nell’amica Arabia Saudita. Il riferimento ad un attentato ordito contro la sua vita Hariri non ha detto che derivasse da quanto dettogli da Velayati, ma, se si ricorda che suo padre tornò da una visita al palazzo presidenziale di Damasco da Bashar al Assad con un braccio rotto, non appare impossibile immaginare che sia stato minacciato di morte proprio dal suo illustre ospite iraniano. Certo è che di lì a breve è apparso dagli schermi di una televisione saudita accusando gli iraniani di interferenza negli affari interni del mondo arabo e dicendo di aver percepito la stessa aria che percepì nei giorni precedenti l’assassinio di suo padre, azione per la quale sono stati rinviati a giudizio dalla giustizia internazionale cinque operativi di Hezbollah. Ed ha annunciato le sue dimissioni.
Dunque Hariri ha sparigliato le carte; con chi ha sempre giocato con il rischio-instabilità del Paese per ottenere quel che vuole, ha risposta con la stessa tattica, negando ad Hezbollah quella serenità operativa di cui ha bisogno per portare a termine l’operazione “tabula rasa” in Siria. Per di più non ha acceso le fiamme dell’odio confessionale, non ha accusato gli sciiti, ha giocato sulla carta “araba”, contro le ingerenze persiane (lui ha detto iraniane). Ingerenze che ognuno ha modo di vedere, da Baghdad a Beirut, cioè lungo quello che i Pasdaran vogliono ridurre a un “corrodio sciita”, nonostante la sua storia millenaria fatto di sedi califfali, di patriarcati, di casemadri di partiti laici e così via. Nasrallah ha risposto invocando quiete, stabilità, quella che gli serve per completare la pulizia etnico-religiosa in Siria. Era evidentemente sorpreso, in difficoltà.
Ora sta a Hariri riuscire a trasformare un azzardo in una mossa politica: cioè per prima cosa deve tornare nella sua Beirut, dove lo volevano uccidere, andare dal presidente imposto da Hezbollah, l’ex generale Aoun, e dirgli chiaramente che le sue dimissioni riportano in gioco tutto l’assetto istituzionale libanese. Hezbollah non avrà la quiete che invoca senza rinegoziare tutto con il partito di Hariri e i suoi alleati. Lo ha detto chiaramente l’ex primo ministro Fouad Siniora.
Ma la rinegoziazione non può ricordare solo il Libano, deve necessariamente coinvolgere il cuore della contesa, cioè la Siria, i profughi e le operazioni di Hezbollah. E’ qui che la mossa di Hariri, e il post-rientro in Libano, che come è presumibile dovrebbe arrivare tra poco, potrebbe offrire l’occasione per un negoziato vero. Ma per iniziativa di chi? Se si pensa che tra Russia e Iran tutto sia a posto nessun negoziato sarebbe immaginabile. Ma se si pensa che Mosca possa avere un interesse a stabilizzare una regione dove ha già avuto ciò che le interessa allora il Vaticano, consapevole di cosa significa il Libano e il modello che in incarna per il futuro del vivere insieme, potrebbe essere l’unico soggetto capace di svolgere, ancora una volta, la supplenza che serve a una comunità internazionale allo sbando.