Alla fine, anche sugli F35, l’Italia ha deciso di non decidere. La mozione approvata al Senato conferma, infatti, la partecipazione al programma di sviluppo dei nuovi caccia e, tuttavia, sospende l’acquisizione di qualsiasi veicolo ad una ulteriore valutazione del Parlamento. Il rinvio rischia però di essere la peggiore delle scelte possibili. Perché non affronta nessuna delle due questioni che gli F35 pongono con forza: né quella di cosa serve, oggi e nei prossimi quindici anni, ad un Paese come l’Italia per difendersi; né quella di una strategia per il sistema industriale nazionale che non può non tener conto delle ricadute tecnologiche che gli investimenti in tecnologie militari hanno. Rischiamodi continuare ad assorbire i costi di uno dei programmi di ricerca più ambiziosi della Storia, senza poterne prevedere gli sviluppi commerciali e senza, peraltro, aver neppure soddisfatto l’esigenza giusta di un confronto democratico su temi che hanno a che fare con il futuro dell’intera società italiana.
La tecnica del rinvio trova, però, la sua più importante giustificazione nel poter essere ritenuta l’unica strada politicamente percorribile, laddove in Italia su ogni problema importante infuria, regolarmente, la battaglia ideologica. Ancora più intenso è stato lo scontro nel cielo degli F35.
Da una parte gli estremisti del pacifismo: quelli per i quali qualsiasi guerra è sbagliata, da qualsiasi parte vi si sia coinvolti, perché ripudiata dalla Costituzione. Anche quando c’è da cacciare un dittatore che sta realizzando un genocidio violando, così, l’intera dichiarazione dei diritti dell’uomo, sulla base della quale la stessa Costituzione fu costruita. Dall’altra i militaristi estremi, quelli la cui forza maggiore sta negli eccessi dei pacifisti, quelli che pretendono di voler essere i soli a decidere per mancanza di competenza e di polso da parte dei propri avversari. Anche se in ballo ci sono i soldi dei contribuenti italiani.
Idealisti contro “uomini della ragione di stato”. E al centro un Paese che ancora una volta non va da nessuna parte.
L’acquisto degli F35 andrebbe valutato, invece, rispetto alla questione tecnica (ma anche largamente di buon senso) di cosa serve oggi ad un Paese come l’Italia per “difendersi” considerando ovviamente che siamo in un contesto di risorse scarse. E che in gioco c’è anche il futuro di un pezzo importante delle imprese italiane che maggiormente investono in ricerca e sviluppo.
Servono oggi nel 2013 e fino a che punto i caccia bombardieri ed, in particolar modo, un progetto che cominciò 15 anni fa, tre anni prima di quell’attacco asimmetrico che l’11 Settembre cambiò il mondo? Quanta quota parte della vita di un caccia perfettamente operativo è stata mediamente utilizzata per missioni, quanto per addestramento e collaudi, e per quanto tempo questi gioielli sono parcheggiati inutilmente negli hangar? Serve uno strumento di questo genere dopo che le due guerre più costose della storia dell’umanità hanno dimostrato che mai come ora c’è stata così tanta, incolmabile distanza tra lo Stato più forte e tutti gli altri? E che però mai tanto impotente è stato l’esercito più forte rispetto a minacce che non sono più convenzionali? Di cosa abbiamo bisogno ora che le missioni di peacekeeping rappresentano una quota assai rilevante dell’utilizzazione del tempo attivo delle forze armate di un Paese come l’Italia e la minaccia maggiore viene da silenziose incursioni informatiche, attacchi improvvisi di gruppi terroristici o da pochi, singoli Paesi dotati o che cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa? E quale è il ruolo dell’Italia in una strategia che non può che essere all’interno dell’alleanza atlantica ed Europea?
Qualche tempo fa, Romney accusò Obama del fatto che l’esercito americano ha meno navi di quante ne avesse nella guerra di Corea. Il Presidente rispose ” Beh, in effetti, volevo dare una notizia al senatore Romney: ha ragione, oggi abbiamo meno navi che all’inizio degli anni cinquanta. Ma c’è di più: è altrettanto vero che oggi l’esercito americano ha anche meno cavalli e baionette di quante ne avesse durante la Guerra di secessione”.
Il punto è, dunque, non ideologico: si tratta di capire se i caccia ipertecnologici non rischiano di essere come le navi della guerra di Corea. Non per una obsolescenza tecnologica o commerciale, ma per un disallineamento strutturale tra domanda e offerta.
È un interrogativo che ha un senso perché a leggere i dati del sito dell’aeronautica militare italiana si rileva che al momento di massima utilizzazione dei nostri aerei negli ultimi vent’anni – si verificò con l’operazione in Libia del 2011 – furono impiegati fino ad un massimo di dodici caccia italiani: rispetto ai 250 che, attualmente, sono disponibili (contando solo gli AMX, i Tornado e gli Harrier a decollo verticale). Ed è un interrogativo importante visto che stiamo parlando di circa 10 miliardi di euro.
C’è poi – parallela e connessa alla prima – la questione di una strategia per la quota parte di industria nazionale – miracolosamente scampata a due decenni di declino – che è ancora competitiva a livello mondiale. Quali le ricadute – in termini non solo occupazionali, ma di consolidamento e sviluppo di vantaggi competitivi utili anche nel civile – di diverse ipotesi di sviluppo? La circostanza che la multinazionale italiana con il più alto livello di diversificazione tecnologica sia – per un terzo – posseduta dallo Stato, aumenta e non riduce, però, la necessità che anche su questo il dibattito sia razionale e trasparente.
Negli Stati Uniti, in Inghilterra, in quei Paesi che sono leader dei programmi militari e di quello degli F35, questo dibattito esiste, vi partecipano militari, think tanks e interessi organizzati e parte dall’idea di dover ridurre drasticamente il budget delle spese militari. Senza compromettere, però, quella superiorità assoluta che ha reso i caccia meno indispensabili, né tantomeno rinunciare a quel formidabile volano che ha portato, ad esempio, un’applicazione militare degli anni sessanta a trasformarsi nella rete che collega tutti i computer.
È da queste domande su cosa serve per avere un futuro che dovrebbe cominciare il confronto. Da noi è, invece, sempre guerra di posizione. In attesa di un ulteriore rinvio.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 17 Luglio