L’Italia e la Grecia sono i due Paesi che hanno il rapporto tra debito pubblico sul PIL più alto tra i 19 Paesi dell’area Euro e nel 2008, prima che la crisi finanziaria facesse esplodere quello greco, i due valori erano molto vicini. Sono i due Paesi che hanno pagato di più la crisi in termini di riduzione del PIL e, tuttavia, se consideriamo un orizzonte temporale più ampio – gli ultimi vent’anni – è l’Italia il Paese che è cresciuto di meno. La corruzione costa in termini di competitività e, anche in questo, i due Paesi sono molto vicini: riesce a fare un po’ meno peggio l’Italia rispetto alla Grecia in termini di corruzione percepita (siamo – per Transparency International – al 67esimo posto nel mondo, quart’ultimo in Europa, mentre la Grecia è 78esima); la Grecia, però, ci lascia la maglia nera per volume di investimenti esteri attratti (secondo la banca mondiale costituiscono poco più dello 0,5% del PIL, in Grecia poco meno dell’1). In Grecia “nessuno paga le tasse”, ma, secondo il World Economic Forum, per complessità del sistema fiscale – che è il più potente alleato dell’evasione – l’Italia è al terz’ultimo posto nel modo su 180 Paesi. Non sono pochi, tuttavia, quelli che si confortano pensando che “la Grecia non ha un’economia” e non esporta alcunché: ma anche questo non è del tutto vero e, secondo EUROSTAT, la percentuale di PIL che viene dalle esportazioni è – sia prima che dopo la crisi – assolutamente simile. Tuttavia, esistono, anche, due differenze significative.
L’Italia è più grande: la nostra economia è dieci volte più grande e se il default della Grecia costituisce una bomba sotto l’impalcatura dell’EURO, quello sul debito pubblico italiano avrebbe l’effetto di una deflagrazione nucleare capace di mettere in ginocchio la finanza mondiale. La seconda differenza è che non bisogna andare indietro di duemila anni per ritrovare l’economia italiana in una posizione di leadership mondiale: solo pochi anni fa, eravamo i primi nel turismo, nel design e nella moda e ancora lo siamo nella robotica e nei satelliti. In teoria, basterebbe una diagnosi seria di cosa è successo negli ultimi vent’anni per recuperare competenze che devono, ancora, essere presenti nel nostro tessuto produttivo e di ricerca. Siamo troppo grandi per fallire, dunque, e dobbiamo inventarci di meno per ricominciare a crescere. E, tuttavia, queste due differenze possono anche essere un ulteriore svantaggio competitivo. Se ci illudessimo che c’è uno stellone che ci mette al riparo di un disastro come quello che i nostri cugini stanno affrontando o se i ricordi ci facessero credere che la crisi è passeggera. In quel caso staremmo sprecando il valore cognitivo che esiste nella crisi e la crisi – priva di momenti di rottura come quelli che affrontano ad Atene – diventerebbe un ancora più lungo e inesorabile declino.