Alle regionali in Liguria, Emilia Romagna e Umbria ha votato la metà degli elettori. Allarme astensione, allarme democrazia
I risultati delle recenti elezioni regionali in Liguria, Emilia-Romagna e in Umbria non hanno prodotto modifiche rilevanti sul piano degli equilibri politici nazionali. Nessuna spallata decisiva dell’opposizione contro il governo.
Semmai una ridefinizione dei rapporti di forza all’interno delle coalizioni. I vincitori brindano, gli sconfitti si dolgono. Peccato che festeggiamenti e sconfitte riguardino solo la metà degli elettori, che, a sua volta, si è divisa solo la metà della torta della rappresentanza.
Realmente, a ciascuno è toccato solo un quarto, perché l’altra metà della torta è rimasta intatta, non è piaciuta a nessuno.
Detto con la politologia anglo-sassone: circa la metà degli elettori ha votato “by feet”, con i piedi. Così non ha votato in Liguria il 54,1%, in Emilia-Romagna il 52,7%, in Umbria il 47,7%.
Votare “con i piedi” non vuol dire usare un organo diverso da quello del cervello, beninteso: anche chi si astiene usa il cervello, solo che dà ordine ai piedi di andare in direzione opposta rispetto alle cabine elettorali.
La democrazia delle minoranze
Annunciato negli ultimi anni, il fenomeno dell’assenteismo sta diventando imponente. Su qualità, quantità, modalità e storia della partecipazione politica sono stati scritti volumi e volumi, per contenere i quali non basterebbe la Biblioteca di Alessandria.
Qui interessa considerare il fenomeno dell’assenteismo da un punto di vista specifico: quello degli effetti politico-istituzionali sulla struttura istituzionale di un regime democratico. Il primo effetto: siamo governati da minoranze.
A prima vista, dove sta lo scandalo? Da sempre la politica è agita da minoranze attive, si autodefiniscano esse “avanguardie” o “minoranze creative” o “gruppi di interesse” o “lobby”.
Tuttavia, da sempre, almeno nei regimi liberal-democratici, le minoranze sono supportate e votate dalle maggioranze, per convinzione, obtorto collo, turandosi il naso, per pigrizia, per inerzia…
I mezzi e le idee per convogliare il consenso delle maggioranze possono essere leciti o no, rispettosi del galateo democratico o no, persino violenti, ma resta che le minoranze governanti hanno bisogno del consenso ufficiale di una maggioranza.
Il caso classico è quello delle elezioni tedesche del 12 novembre del 1933, che consegnarono a Hitler il 92,11% dei consensi. Più attuali i casi dei regimi autocratici e dittatoriali, che sono minoranze che poggiano su una maggioranza-farsa, generata dall’estromissione dalla competizione dei partiti di opposizione, dall’imprigionamento o dall’assassinio degli oppositori, dall’abolizione della separazione dei poteri e dalla penalizzazione dell’astensione.
Andare a votare è un obbligo per i cittadini, non un diritto, l’astensione è un reato. Eppure, anche una dittatura deve rendere un omaggio al principio democratico di maggioranza.
Un macigno d’inciampo
Ora, “il macigno d’inciampo” delle nostre democrazie sta nel fatto che la maggioranza hanno deciso di smettere di appoggiare le minoranze. Oggi le minoranze sono sostenute solo da minoranze.
Poiché la democrazia è il governo del popolo o, almeno, della sua maggioranza, ne consegue che “i governi” sono sempre meno democratici e che, pertanto, le basi della nostra democrazia sono sempre più fragili.
E poiché il sistema istituzionale democratico è il più adeguato a tenere sotto controllo pacifico le passioni contrapposte degli esseri umani, la crisi di questo sistema diventa crisi della coesione sociale e della convivenza civile.
Mentre oggi le minoranze vincitrici e quelle perdenti si dedicano rispettivamente a celebrare vittorie e a piangere sconfitte, la maggioranza sta dall’altra parte della luna, quella in ombra.
Una parte della società e dei suoi conflitti sembra sfuggire alla rete della rappresentanza. La conseguenza potenziale è ciò che il socio-politologo deve descrivere e che Landini prescrive: la “rivolta sociale”.
L’autocrazia partitica
La percezione primaria del cervello dell’assenteista è che la rappresentanza, che si trasforma in governo, non sia capace di risolvere i problemi per la soluzione dei quali viene eletta.
Poiché nessuno può dedicarsi a pieno tempo a organizzare la sanità o la difesa per tutti, si è convenuto di delegare ad un corpo politico specializzato l’affronto e la soluzione dei problemi relativi.
I partiti propongono dei candidati, gli elettori li votano, a seconda delle ipotesi di soluzione che essi propongono.
Che cosa si è rotto in questo meccanismo, che pure ha funzionato per decenni? Si sono rotti i partiti.
Da bacino di raccolta di idee, che poi vengono filtrate, messe in ordine, sintetizzate in programmi, i partiti si sono trasformati in organismi autocratici, quasi tutti “di proprietà” personale o diretti da nomenklature oligarchiche, “legittimate” una tantum da assemblee pletoriche, composte da correnti confliggenti, ma al fondo complici.
Eppure, la mancanza di democrazia interna non è il difetto più grave. Grave lo è! Come si fa a costruire la democrazia nel Paese, se si usano fragili mattoni “autocratici”?
Tuttavia il difetto più grave è la mancanza di intelligenza della realtà del Paese. I partiti della Prima repubblica avevano una struttura autocratica, anche se temperata da milioni di iscritti e di molti sensori sul territorio – le sezioni – ai quali dovevano render conto.
Ma, diversamente dai partiti attuali, avevano messo in piedi apparati di studio della realtà del Paese.
Conoscevano le città e le campagne, i centri e le periferie, la pianura e la montagna, gli operai e gli impiegati, i padroni e i manager. Le loro ideologie producevano conoscenza sociale.
Se l’arena della democrazia diventa un ring
Questo patrimonio sembra dissolto. Sono rimaste le ideologie del ‘900. La causa ultima è la concezione e la pratica di un bipolarismo fondato sulla contrapposizione ideologica, non sull’alternanza di governo.
Il ricompattamento del sistema dei partiti, dopo gli anni della crisi della Prima repubblica, è avvenuta attraverso contrapposizioni ideologiche frontali.
L’avvio dell’ideologismo è stato dato dalla discesa in campo di Berlusconi “contro i comunisti”, paradossalmente proprio negli anni in cui il sistema degli Stati comunisti e i Partiti comunisti chiudevano per fallimento.
All’anticomunismo di Berlusconi si è subito contrapposto un “antiberlusconismo” di segno ideologico opposto, altrettanto intenso.
Mentre si esauriva il reciproco assedio, la cui fine Aldo Moro aveva auspicato e alla quale ha sacrificato involontariamente la vita, se ne inaugurava un altro, assai più feroce, ancorché inframmezzato dagli armistizi “tecnici” di Monti e Draghi.
Siamo arrivati alla fine del 2024, eppure nessuno dei blocchi contrapposti riconosce veramente l’altro come costruttore della Patria comune. Per la Destra al governo la Sinistra non difende i confini, non è “patriottica”; per la Sinistra, oggi all’opposizione, la Destra ripropone i moduli del fascismo e coltiva la nostalgia dell’olio di ricino.
Così la politica, intrisa di ideologie ultimative, trasforma l’arena della democrazia in un ring, dove i contendenti se le danno di santa ragione, mentre gli elettori hanno perso la voglia di assistervi e se ne vanno lontano.