In Italia è un’eresia anche solo farsi la domanda. Invece, i dubbi sono sempre più frequenti anche fuori dalla Germania e il Financial Times – qualche giorno fa – si è posto la questione in maniera netta: sta funzionando il quantitative easing? Ha ragione Draghi quando – ammettendo che il programma non sta centrando il proprio target principale (di inflazione attesa) – risponde che è, allora, il caso di cominciare a pensare ad una sua estensione fino a quando non funziona? In realtà, ci sono almeno quattro ragioni per le quali bisognerebbe – anche dal punto di vista dell’Italia – porsi il problema e tutte fanno riferimento alla stessa controindicazione di un prolungamento del trattamento (oltre il termine stabilito inizialmente previsto per il Settembre del prossimo anno) che è quello che ha una qualsiasi medicina presa per tempi troppo lunghi: si rischia l’assuefazione.
In primo luogo, se le aspettative cominciano a incorporare l’attesa di una sua trasformazione in una caratteristica permanente, aumentano le probabilità dell’azzardo morale e che i suoi beneficiari diretti si trasformino – senza che nessuno se ne accorga – in zombies (Banche, Imprese, Stati) destinati – laddove il trattamento fosse sospeso – ad un fallimento il cui costo diverrebbe tanto più elevato quanto più se ne allunga artificialmente la vita. In secondo luogo, se l’iniezione di liquidità perde il suo carattere di shock, il pericolo è che le altre economie reagiscono con misure analoghe sterilizzandole completamente in termini di impatto su variabili (che pure si intendeva influenzare) come il tasso di cambio. C’è poi il rischio di trovarsi – di fronte ad un aggravamento improvviso della crisi – con il cassetto delle medicine svuotato dalla lotta per raggiungere un obiettivo tutto sommato non vitale (l’inflazione al due per cento). Infine, la questione dei canali di trasmissione. L’intera scommessa fallisce se l’iniezione di liquidità si ferma nelle casse dei più diretti beneficiari e non si traduce in maggiori investimenti da parte delle imprese o di prestiti da parte delle banche. Il risultato dell’operazione, in questo caso, si limita ad uno spostamento – anche piuttosto iniquo – di risorse (attraverso il calo del tasso di interesse) dai creditori ai debitori.
Il problema, in fin dei conti, è che semplicemente in un’economia è possibile che ci sia tanta liquidità e poche idee su come investirla, tanti soldi e poca intelligenza: basta allocare male le risorse. Ed è per questo che forse conviene, visto che il QE è una misura non convenzionale, fare un ulteriore sforzo di fantasia e concretezza e riflettere meglio su come rendere la politica monetaria capace di scegliere in maniera più precisa i propri bersagli: compito questo che, con ogni probabilità, va oltre il ruolo del governatore di una Banca Centrale.