Aggiustarci con il resto del mondo
L’Italia sta attraversando un periodo molto difficile, come sono tutti i momenti di grande trasformazione. Molti altri paesi partecipano, in modi e misure diverse a seconda delle caratteristiche del singolo paese ad analogo processo. Da noi gli effetti economico-sociali sono molto pesanti, perché il processo di trasformazione incide sui nostri specifici e tradizionali mali ( che io chiamo piaghe bibliche) che, da molto tempo, non abbiamo saputo e voluto affrontare. “Sono trent’anni che non ci aggiustiamo con il resto del mondo” ha detto il Governatore della Banca d’Italia, in un passaggio centrale della sua bellissima e importantissima relazione del 31 maggio 2013. Le vicende e le pressioni dei mercati e delle istituzioni internazionali , ci dicono semplicemente: il tempo è scaduto; ora dovete veramente aggiustarvi con il resto del mondo. Anche se talora il mondo ci impone cose sbagliate o discutibili. Ma dobbiamo farlo, comunque, con lucidità e spirito di verità. Senza ingannare noi stessi e senza muoverci in modo frettoloso e disordinato, alla ricerca di facili vie di fuga per scaricare su altri la nostra responsabilità. Ancora ci aiutano, a capire, le parole del Governatore:
“Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi 25 anni. L’aggiustamento, richiesto e così a lungo rinviato, ha una portata storica, ha implicazioni per le modalità di accumulazione, ha implicazioni per le modalità di accumulazione del capitale materiale e immateriale, la specializzazione e l’organizzazione produttiva, il sistema di istruzione, le competenze, i percorsi occupazionali, le caratteristiche del modello di welfare e e la distribuzione dei redditi, le rendite incompatibili con il nuovo contesto competitivo, il funzionamento dell’amministrazione pubblica. E’un forte e generale confiteor che tutta la classe dirigente italiana, compreso noi, deve recitare.”
“L’aggiustamento che dobbiamo realizzare è così grande che se necessita del contributo decisivo della politica, è essenziale la risposta della società e di tutte le forze produttive”.
E tutto ciò non si improvvisa e non si fa in tempi brevi.
“Festina lente”. Questo motto latino, di grande saggezza, è molto adatto alla nostra situazione. Ricuperare un ritardo trentennale richiede tempo, costanza e tenacia. Bisogna affrettarsi a prendere le decisioni giuste, ad avviare la marcia nella direzione giusta, ma poi non bisogna attendersi miracolismi a breve. Bisogna partire subito (festina) ma con passo lento e sicuro (lente), adatto alla situazione ed alle difficoltà da superare, all’aggiustamento necessario. I guai italiani sono, in parte dovuti al fatto che le azioni di governo sono una successione di azioni di emergenza per ottenere risultati a breve, da vendere sulla bancarella del populismo politico. Il governo Letta si muove a piccoli passi e data la situazione politico parlamentare non può fare altro. Molti di questi piccoli passi sono nella direzione giusta “dando luogo a una vasta azione di microinterventi utile a liberare energie vere per lo sviluppo. Questa strategia però diventerà veramente efficace se troverà il coronamento di un nuovo patto fiscale tra Stato e cittadini. Solo all’interno di un vero ridisegno di tasse e imposte per ridurre il peso del nucleo fiscale sul lavoro e imprese sarà possibile crear le condizioni per un rilancio, potente e duraturo, dell’economia” (Alberto Orioli 24 Ore 8 agosto 2013).
Mentre a livello internazionale ed europeo ci si confronta su temi di vitale importanza sul destino nostro e dei nostri figli e nipoti (le prossime elezioni tedesche del 22 settembre 2013 saranno molto importanti per noi), mentre sull’Italia incombono problemi di enorme gravità, l’estate italiana è stata concentrata a dibattere sul destino, politico e giudiziario, di un vecchio affarista, discreditato di fronte a tutti i governi e parlamenti occidentali, con una condanna definitiva a quattro anni per frode (non evasione!) fiscale, e altre gravi, forse più gravi, pendenze giudiziarie in corso.
A questo tema i grandi giornali italiani hanno dedicato decine e decine di pagine anche nobilitando dettagli e gossip indecenti, mentre le televisioni hanno trasmesso per ore il pensiero in materia di tale Daniela Santanché. Bisogna fare un grande sforzo per superare lo scoramento che tutto ciò genera, stringere i denti sperando che, prima o poi, il popolo italiano riesca ad uscire da questo stadio di ebetudine (Devoto Oli:”temporaneo annebbiamento delle facoltà intellettive che si accompagna a una sorta di attonito stupore”). E solo questa, sempre più remota, speranza che riesce, a fatica, a far sopravvivere il desiderio di pensare e di parlare dei nostri problemi veri e delle nostre prospettive come singoli e come comunità.
Dipendenza dal quadro internazionale ed europeo.
Credo che siano in pochi a dubitare che il nostro futuro sia fortemente condizionato da direttive, pressioni, politiche che derivano da sedi internazionali e soprattutto europee. E’ la conseguenza inevitabile del mondo interconnesso nel quale viviamo.
Di fronte a questa realtà ci si può comportare in vari modi:
–pretendere di sfuggire a questa dipendenza, uscendo dall’euro, dalla UE, dal FMI e simili, come becerano i vari leghisti, Grillo e altri capipopolo che inseguono derive demagogiche, peroniste, plebiscitarie. Sarebbe la tragedia finale;
— truccare i conti come ha fatto la Grecia per entrare nell’euro nel 2001, nascondendo di avere un deficit pubblico molto al di sopra della soglia del 3% del PIL; e poi dilapidare i fondi di sviluppo europeo con un clientelismo assistenziale disastroso; ridurre la produttività, con una selva di regolamenti rigidi; tollerare un’alta evasione fiscale; assicurare le rendite delle professioni protette; assicurare delle pensioni privilegiate a varie categorie, più elevate della maggior parte di tutti gli altri paesi europei. Insomma voler far parte di un club, barando. Gli errori delle manovre imposte Alla Grecia dalla Troika sono fuori discussione ed è certo che hanno alzato enormemente il costo del risanamento. Ma ciò non deve far dimenticare che la responsabilità primaria del default greco è greco. In questo caso si può ricuperare, ma con prezzi sociali, economici, umani altissimi (ma è significativo che, ancora oggi, il 70% dei Greci vuole rimanere nell’Euro);
— accettare le regole del gioco e rientrare nelle stesse rapidamente come ha fatto l’Irlanda. L’Irlanda ha sempre esemplarmente rispettato i criteri di deficit imposti dalle regole comunitarie, ma ha dovuto accollarsi i debiti di un sistema bancario in fallimento (al quale le banche estere comprese le tedesche avevano dato un notevole contributo). Ma l’Irlanda ha affrontato la crisi con rigore e competenza ed è riuscita a ridurre il suo debito dal 54 al 25% del PIL tra il 1998 e il 2007;
— rispettare le regole, ma, quando necessario, chiedendo deroghe, come hanno fatto Germania e Francia, nel 2003, per chiedere e ottenere una deroga temporanea al limite del 3% del deficit sul PIL;
— non limitarsi a rispettare le regole del gioco, ma partecipare, in modo attivo e costruttivo, alla loro formazione e applicazione. Insomma essere soggetti attivi e responsabili del club. E’ quello che ha sempre fatto l’Italia nel club Europa, prima della caduta a picco di credibilità con l’ultimo Berlusconi, e che è tornata a esserlo con il primo Monti ed anche con Letta. C’è un lavoro enorme da fare in sede europea, c’è un grande contributo che l’Italia può dare, nel suo interesse ma anche nell’interesse del processo europeo. Draghi, sia pure in una posizione europea e non italiana, è la dimostrazione che gli italiani seri possono dare molto all’Europa. Come fu con Ciampi e con molti prima di lui, sino a De Gasperi. L’importante è ritornare a credere che questa è la via, liberarci da ogni complesso di inferiorità, non cadere nelle lusinghe dei capopopolo peronisti e mettere mano, seriamente, alla nostre piaghe bibliche (che è ciò che, più elegantemente, si chiamano riforme), contrastando la condivisone, sempre più diffusa nell’Europa del Nord, che l’Italia sia un paese irriformabile.
La premessa di fondo: spezzare la spirale della sfiducia
Il nuovo presidente dell’Assolombarda, Gianfelice Rocca, ha tenuto la sua prima bellissima e importante relazione all’Assemblea Generale del 10 maggio 2013, che ha intitolato: “VA SPEZZATA LA SPIRALE DELLA SFIDUCIA”. Ha detto molto bene. Perché questa è la premessa di fondo, la condizione preliminare per ogni azione di ricostruzione effettiva. Senza questa premessa ogni misura puramente tecnica è inefficiente. Bisogna ricuperare fiducia tra di noi e in noi stessi. Fiducia nei rapporti reciproci, riscoperta della verità che se i mascalzoni sono in numero elevato e molti di loro sono ai posti di comando, se la corruzione è soffocante, se la malavita organizzata è potente, tuttavia, la maggioranza degli italiani è fatta di persone per bene, che lavorano onestamente e con competenza e capacità, di imprese serie, di sindaci che amministrano accettabilmente le nostre città e paesi, pur tra difficoltà enormi, di forze dell’ordine e di giudici eroici che si battono, con perseveranza, contro la malavita organizzata. E dobbiamo ricuperare fiducia in noi stessi come comunità. Non è possibile che un paese che ha saputo rinascere dalla guerra e dal fascismo, che ha saputo realizzare una ricostruzione ed uno sviluppo spettacolare, il paese che ha inventato la Vespa, la Topolino, la Ferrari, il parmigiano reggiano, il Brunello di Montalcino, il paese di Fermi, di Toscanini, di Falcone, di Borsellino, di Muti, di Abbado, di Coppi, di Bartali, di Adriano Olivetti, di Paolo Baffi, di Einaudi, di De Gasperi, di Ezio Vanoni sia, quasi improvvisamente, diventato un paese cialtrone e senza speranza.
Gianfelice Rocca chiude la sua relazione ricordando l’esemplare reazione al terremoto e la ricostruzione delle genti emiliane, di Mirandola, Medolla, San Felice sul Panaro. E’ un esempio molto felice, che aiuta a rompere la spirale della sfiducia, a darci coraggio:
“Oggi, a distanza di un anno, il coraggio e la determinazione delle genti e degli imprenditori di quei luoghi hanno fatto miracoli, hanno ricostruito le aziende, hanno sempre mantenuto le scuole aperte, hanno riaperto le chiese. Nonostante le difficoltà burocratiche, non si sono mai arresi. Hanno dimostrato che è possibile lavorare insieme fra tutte le istituzioni, fra tutte le organizzazioni. Quando c’è l’indomabile voglia di fare. Noi Li ringraziamo perché questo è l’esempio da cui vogliamo partire, l’esempio che ci dà fiducia e speranza. E’ questa, l’Italia possibile. Va spezzata la spirale della sfiducia”.
Ma il compito di spezzare la spirale di sfiducia non è per niente né facile né breve e richiede un impegno consapevole e tenace, da parte di tutti e soprattutto da parte di chi abbia responsabilità e potere. Il punto di partenza è molto basso, come testimoniato dalla altissima astensione al voto, registrata nelle ultime elezioni amministrative, e che la maggioranza degli italiani ritiene, secondo rilevazioni serie: “un segnale di pesante sfiducia verso tutte le istituzioni”. Ma la fiducia è disponibile a riprendere appena si apre uno spiraglio di speranza, come dimostra il giudizio del primo mese, assai positivo (superiore al 60%), sia per il governo Monti che per il governo Letta. Recenti rilevazioni affidabili dimostrano che il clima dominante nel paese è quello che gli esperti chiamano “depressivo-ansiogeno”, e che è, al contempo, in atto un cambiamento notevole degli stili di vita (la società si sta auto organizzando). Secondo un attento studioso della materia (Simone de Battisti): “per uscire dalla depressione (che a tendere non diventa conflitto ma spegnimento) le azioni da mettere in campo sono note: fermare il senso di solitudine (rigenerare legami sociali); re-framing dei desideri e delle scale di valori e di priorità (comunicazione e modelli sociali); risposte concrete ai bisogni primari; necessità di trovare un senso sociale ed un ruolo, purché sia “. Queste convincenti osservazioni rafforzano la tesi che ciò che è necessario è uno sforzo comune, un impegno di disponibilità, un sentimento di solidarietà, un partire dalla domanda: che cosa posso fare io? Non vi è dubbio che senza risposte importanti a livello politico-istituzionale non si va da nessuna parte. Ma non vi è del pari dubbio che, con la disperante classe politica e con la stampa che ci troviamo, senza una FORTE REAZIONE DALLA SOCIETA’, queste risposte non verranno mai. Per questo, ad esempio, condivido la severa critica di Francesco Zanotti alla relazione del presidente Giorgio Squinzi all’ultima Assemblea di Confindustria, giustamente definita un PIAGNISTEO, priva di idee e di prospettive e solo diretta a chiedere soldi e supporti al Governo.
Ma quando parla come presidente della Confindustria, Squinzi, non parla il suo linguaggio solito di imprenditore di successo a guida di una multinazionale tascabile da lui stesso creata. Parla il linguaggio di una burocrazia che costa 500 milioni di euro all’anno contro i 30 milioni della Confindustria inglese e francese, sempre più dominata dalle grandi imprese statali (ENI, ENEL, Poste,Finmeccanica) e della quale, giustamente, Guido Barilla, ha detto:
“Confindustria è una parte significativa dell’inefficienza del sistema ed è l’esatta faccia di un vuoto politico e culturale. Non è Squinzi, ma l’Istituzione di per sé che è identica a tutte le altre. Il tempo è scaduto anche per Confindustria. Il tempo è scaduto cinque anni fa”.
La difficoltà di lavorare per ricostruire la fiducia tra di noi e in noi non è legata dunque, solo allo stato di decomposizione politica dei partiti, che ha raggiunto uno stadio incredibile, ma al fatto che troppi soggetti istituzionali (dalla Confindustria ai sindacati) sono inchiodati al loro passato ed ai loro egoismi. Come ha detto lucidamente Gianfelice Rocca: “I partiti, Istituzioni, Sindacati, le stesse associazioni del mondo imprenditoriale sembrano congelate, incapaci di cambiare”. Ma che il presidente di un’associazione imprenditoriale importante come l’Assolombarda dica queste cose, insieme ad altre manifestazioni di pensiero responsabile come l’ultima relazione del Governatore della Banca d’Italia, Visco, riaccendono la speranza.
Strategie generali
Il catalogo delle proposte di specifiche azioni di politica economica da perseguire è ricco, formulato da enti e studiosi seri, in gran parte condivisibile come è, del resto, buona parte di quello contenuto nel programma del governo Letta. Quelle che sono deboli sono le strategie generali, i pilastri del tempio, la visione nell’ambito della quale inquadrare e valutare i singoli provvedimenti, la direzione di marcia, quella che, in economia aziendale, chiamiamo “The Basic Strategy”. C’è molto consenso nella teoria aziendale sul fatto che quando la “Basic Strategy” è corretta, le deviazioni occasionali, comunque originate, anche significative, possono non dare eccessivi disturbi. Questa debolezza è inevitabile conseguenza della confusione morale e istituzionale e della mancanza di pensiero in partiti, sindacati, e altri soggetti portatori di responsabilità strategiche, dell’asservimento al neoliberismo anglosassone della maggior parte degli studiosi e degli esponenti principali della sinistra. Quali dunque le “basic strategies” per l’Italia. A me sembra che gli elementi fondamentali di una corretta strategia per l’Italia, cioè di una strategia della ricostruzione, siano i seguenti:
– Rispetto, difesa, ripristino per le parti stravolte, attuazione per le parti non realizzate, della Costituzione. Nella sua interezza ed integrità compreso l’art. 1 e l’art.4. L’articolo 1 vuol dire che il capitalismo finanziario selvaggio che ha imperversato negli ultimi 30 anni, quel neoliberismo assorbito e scimmiottato ottusamente dalla sinistra italiana che ha, così, dato vita alle “due destre” è estraneo alla nostra Costituzione; che al centro non ci può essere il “capital gain” ma la dignità del lavoro in tutte le sue forme, da quella operaia a quella intellettuale a quella imprenditoriale. L’art. 4 vuol dire che l’impegno per dare a tutti un dignitoso lavoro è obiettivo e impegno fondamentale e indispensabile della nostra comunità.
– Il pensiero e la struttura socio-economica più coerenti con i principi della nostra Costituzione e già sperimentati con successo, l’unica che esce vincente a livello mondiale dalla attuale crisi, è l’economia sociale di mercato o il liberalismo sociale (Quadrio Curzio), che non si identificano ma sono molto simili e con larghe sovrapposizioni, per cui se tra i padri fondatori mettiamo Röpke e altri eminenti personalità della scuola di Friburgo, ed Erhard e Adenauer sul piano politico realizzativo, al loro fianco, e stretti vicini a loro, ci mettiamo Einaudi, Don Sturzo, Rosmini, De Gasperi, Vanoni, e altri eminenti italiani. Questo vuol dire che il neoliberismo ancora oggi dominante in tante cattedrali del pensiero economico, soprattutto, ma non solo, anglosassoni non solo non è da seguire e da adottare, come ha fatto la sinistra italiana, ma è da combattere sul piano del pensiero e delle soluzioni di politica economica. L’Einaudi delle Lezioni di Politica Sociale (1944) è, se vogliamo usare il loro linguaggio, molto più a sinistra di qualunque personaggio del PD ex comunista e di qualunque leader sindacale italiano.
All’economia sociale di mercato, al liberalismo sociale, al liberalismo senza aggettivi, come a lui piaceva dire, perché il liberalismo è sempre sociale, precisava, di Einaudi, sono radicalmente estranee le diseguaglianze economico-sociali colossali che hanno trionfato in America ed in Europa soprattutto in UK e Italia. Tutte le frottole sull’uscita dalla crisi, restano appunto frottole se non si pone mano ad una politica economica che miri a diminuire tali differenze. Lo strumento fiscale è qui fondamentale. Come si fa a diminuire queste differenze lo spiega bene Luigi Einaudi nelle Lezioni di Politica Sociale. Ma anche Roudini (Repubblica 1 agosto 2013) può bastare: “Serve un piano coerente contenente il calo del costo del lavoro sia per i dipendenti che per gli imprenditori, la rimodulazione fiscale complessiva fatta di alleggerimenti fiscali per i soggetti più deboli e aggravi per i più ricchi, massicci incentivi per chi assume i giovani. Con questo pacchetto il governo deve chiedere a Bruxelles lo sforamento temporaneo del 3% per permettere alla crescita di ripartire. Letta ha la credibilità per convincere Bruxelles, Bce e mercati che il piano non franerebbe per mancanza di coperture? Sì, purché affronti i problemi in modo complessivo. Niente velleitarietà alla Berlusconi. Che senso ha chiedere l’abolizione dell’IMU? Significa dissipare il polmone finanziario, che può arrivare all’1,5% del PIL, di un IMU rimodulata che gravi sui più abbienti. Anche sull’IVA serve lucidità non escludendo la “svalutazione fiscale” come hanno fatto Francia e Germania; aumenti dell’IVA se affiancati da tagli alle imposte dirette sui dipendenti e aziende. Si riposiziona l’Italia nella concorrenza globale riducendo il costo del lavoro e si garantisce ai cittadini più sicurezza e un reddito a conti fatti maggiore”.
I pilastri della ricostruzione economica
I pilastri della ricostruzione del Paese non sono economici, ma morali, culturali, istituzionali. Tuttavia sul piano economico possiamo contare su due pilastri. Il primo pilastro è la diffusa capacità manifatturiera e la solidità del quarto capitalismo italiano. I dati dell’export illustrano che, nonostante i vincoli e le inefficienze di sistema, l’industria manifatturiera italiana impegnata sul mercato internazionale, si batte con grande vigore e con un buon successo. L’industria italiana è in crisi perché si è spenta la domanda interna di consumo e di investimento e il fatturato domestico è crollato, cosa che non si è verificata né in Germania né in Francia e che è dovuta principalmente alla dissennata politica recessiva dei governi (governo Monti in testa).
Ma se guardiamo gli indici globali di competitività formati dagli enti internazionali specializzati l’Italia è sempre molto indietro, intorno al 34° posto, (dopo Argentina, Romania, Sud Africa, Spagna). La spiegazione di questa apparente contraddizione è data dalla scheda seguente che illustra i criteri considerati per stimare e confrontare la competitività manifatturiera dei principali paesi.
Questa scheda dovrebbe aiutarci ad indirizzare l’azione di ricupero della competitività nelle giuste direzioni.
Il secondo pilastro su cui è possibile la ricostruzione economica è il buono stato patrimoniale- finanziario medio delle famiglie italiane. Il Sole 24 Ore del 7 maggio 2013 ha dedicato al tema un’intera pagina con il titolo terroristico, a otto colonne, e caratteri cubitali: “Crolla il risparmio delle famiglie “. Il Sole 24 Ore del 19 agosto 2013 dedicava una nuova ricca e ben congeniata pagina dal titolo, sempre di grande evidenza: “ La ricchezza finanziaria assorbe la crisi. Con un balzo del 5% in dodici mesi nel 2012 lo stock finanziario delle famiglie è tornato ai livelli del 2007”. Come si spiega l’apparente contraddizione? Con il fatto che il primo articolo non parlava, invero, del risparmio delle famiglie, ma della propensione al risparmio degli italiani che, in effetti, è sceso, negli ultimi venti anni, dal 22% all’8% del reddito disponibile. Parlava quindi di flussi. Il secondo invece parla del risparmio effettivo delle famiglie, della loro situazione patrimoniale-finanziaria media; parla di stock. Con relativa sorpresa gli ultimi dati della Banca d’ Italia documentano che, alla fine del 2012, lo stock finanziario delle famiglie italiane ammontava a 3716 miliardi, con un incremento del 4,9% sul 2011. Questo livello, molto vicino al livello pre-crisi è pari a tre volte il reddito disponibile, è superiore al debito pubblico (che a luglio era di 2.024 miliardi) e colloca il risparmio (stock finanziario) medio delle famiglie italiane (151,6 milioni) al top tra i paesi europei (solo leggermente inferiore a quello francese). Commenta giustamente il Prof. Luigi Campiglio, ordinario di politica economica alla Cattolica, “il 2012 è stato un buon anno dal punto di vista dei mercati e i numeri complessivi dimostrano che nonostante le difficoltà economiche la ricchezza (finanziaria delle famiglie) tiene ed è un aspetto da non sottovalutare. I risparmi delle famiglie sono un indicatore fondamentale per capire come rilanciare l’economia”.
Il tema va peraltro analizzato in relazione alla distribuzione della ricchezza. Sappiamo che l’Italia è tra i paesi dove la concentrazione della ricchezza è stata più forte e quindi i valori medi possono avere un significato diverso in paesi, come la Germania, dove tale concentrazione è stata molto meno marcata.
I due pilastri fondamentali per la ricostruzione hanno sofferto molto a causa della crisi ma ancor più a causa della dissennata politica economica e creditizia dei governi italiani, ma hanno resistito. Essi però non sono una rendita ma solo una possibilità a disposizione di una rinnovata e più responsabile politica economica, creditizia e del lavoro. Gli italiani sanno bene che gli stock si sgretolano se non vengono rialimentati da flussi positivi.
I capitoli principali di una nuova politica economica
E’ nell’ambito di questi temi fondamentali di strategia generale che vanno inquadrati i capitoli principali di una nuova politica economica, che mi limito a schizzare schematicamente.
– Lavoro e rapporto impresa- sindacati. Un salto di civiltà
Il tema lo pongo al primo posto non perché è diventato di moda (è da decenni che dico che il lavoro è al primo posto) ma perché se non produce lavoro, se non assicura la base per l’applicazione dell’art. 4 della Costituzione, un sistema economico è profondamente malato. Perché aveva ragione J. M. Keynes quando scriveva: “i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria ed iniqua delle ricchezze e dei redditi”. Perché aveva ragione Federico Caffè quando scriveva ( 2 gennaio 1977, ora nel ricco e importante volume antologico a cura di Giuseppe Amari: Federico Caffè, Contro gli incappucciati della finanza, pag. 131, 2013 Castelvecchi Editori): “L’unico, vero, inequivocabile fallimento è quello di un sistema economico che non sia in grado di creare posti di lavoro adeguati per coloro che ne hanno necessità”.
Quando studiavo economia politica all’Università, con la guida di Ferdinando di Fenizio, non c’era la piena occupazione, ma nessuno dubitava che questa fosse l’obiettivo fondamentale e possibile. Ed, ancor prima, al liceo, ricordo le appassionate discussioni suscitate dallo Schema Vanoni. Oggi il tema, almeno sino a poco fa, sembra rimosso, sia dalle “due destre” che, al di là della retorica, dal sindacato. La cartina al tornasole è data dalla sorpresa con la quale, da poco più di un anno, tutti hanno incominciato a parlare del problema, tutti sorpresi, tutti in contropiede, tutti come Alice nel Paese delle meraviglie.
Quando il governo Monti annunciò la volontà di impegnarsi in materia di lavoro, io scrissi un articolo affermando che, in questa materia, abbiamo bisogno di realizzare un vero e proprio salto di civiltà. Alcuni dirigenti sindacali mi risposero su un quotidiano: noi siamo pronti, purché si tratti di un discorso onesto e trasparente. Si respirava un clima di possibile impegno, ma la riforma Monti-Fornero ha soffocato ogni slancio e ci ha respinto tutti nel retro bottega delle piccole questioni, senza minimamente capire che dobbiamo fare un grande salto di civiltà Oggi dobbiamo uscire da questo retro bottega e cercare di guardare oltre, e più in alto.
Questo se vogliamo:
– un sistema che favorisca e non ostacoli la creazione di lavoro, soprattutto giovanile;
– un sistema che aiuti il paese a recuperare la perduta competitività;
– un sistema che aiuti a fare dei luoghi di lavoro, le imprese in primo luogo ma non solo quelle, luoghi di convivenza civile e di solidarietà sociale, vere comunità in un clima di convivenza civile come fanno altri paesi più avanzati di noi,
dobbiamo realizzare un salto di civiltà.
Era il sogno di imprenditori illuminati come Adriano Olivetti i cui discorsi su questi temi sono stati opportunamente ristampati in questi giorni.
Ma il nostro punto di partenza è pessimo. Siamo il Paese che ha assassinato studiosi del calibro di Tarantelli e Biagi, con il mercato più rigido, gli stipendi più bassi e il tasso di occupazione più basso d’Europa; un Paese con un sindacato e leader imprenditoriali indietro culturalmente di almeno 50 anni rispetto ai più avanzati paesi europei.
– Ristrutturazione della spesa pubblica e della conseguente politica fiscale
Anche il nodo della ristrutturazione della spesa pubblica e della conseguente politica fiscale è centrale ed ineludibile. Se vogliamo una società più giusta, un’economia più produttiva, un’occupazione più elevata, dobbiamo inevitabilmente passare attraverso la porta stretta di una profonda ristrutturazione della spesa pubblica e della conseguente politica fiscale. Passaggio certamente non facile ma ineludibile. Negli ultimi 11 anni dal 2000 al 2013, basandoci unicamente sui dati ufficiali, si dimostra che il totale delle entrate pubbliche sono aumentate di 228 miliardi mentre il totale della spesa pubblica corrente è aumentato di 274 miliardi. Tutte le chiacchiere sulla riduzione della spesa corrente, spending review affidata a qualche Nembo Kid di turno, riduzioni auto blu, riduzioni voli di stato, sono specchietti per le allodole e per gli allocchi. La spesa corrente è sempre aumentate e questo trend non è sostenibile. I nemici qui sono quelli che analizzata, con sussiego, la spesa pubblica per grandi categorie, concludono dicendo: il grosso è incomprimibile. In sostanza la loro argomentazione è la seguente: se tutto resta uguale la spesa pubblica è incomprimibile. Lapalissiano! Ma la verità è che noi vogliamo che molte delle cose sottostanti che la determinano, cambino profondamente.
– Debito pubblico
Bisogna sconfiggere la convinzione dominante che il debito pubblico può diminuire solo riattivando lo sviluppo. Questo è fondamentale, ma lo squilibrio è tanto grande che richiede operazioni di ristrutturazione finanziaria straordinaria. Altrimenti saremo sempre ricattabili e ricattati.
– Assetti istituzionali
Le linee maestre sono qui chiare: riduzione drastica dei parlamentari; specializzazione delle due camere; cambiamento radicale o, meglio, eliminazione dei finanziamenti pubblici ai partiti; legge sull’ordinamento dei partiti; riforma del titolo V della Costituzione con forte semplificazione degli enti locali, territoriali e non territoriali. Parola d’ordine: diminuire il costo della politica di almeno il 30% da riversare su investimenti.
– Produttività della PA
Già Bernardino da Siena, il grande predicatore senese (1380-1444), che nelle sue prediche aveva spunti di forte umorismo, se la prendeva con il burocrate “che tranquilla (cioè: tira per le lunghe) le questioni e non ne trae mai fine a nessuna”. La storia è dunque molto antica e non dobbiamo essere velleitari. Ma è un altro nodo ineludibile. Ogni intervento è fallito, perché si è trattato di velleitari disegni di riforme di tutta la PA nel suo insieme. Ed invece bisogna agire caso per caso, nella concretezza delle singole disfunzioni, fare battaglie specifiche e concrete.
– Credit Crunch
E’ un problema molto complesso, con componenti internazionali e nazionali. Ma non possiamo pensare di continuare a lungo con un credit crunch feroce e con tassi onerosi, mentre, a pochi chilometri,passando il confine in direzione di Svizzera, Austria, Baviera, le stesse imprese potrebbero contare su abbondanti liquidità e su tassi di almeno 2-3 punti inferiori. Il Paese deve ritornare ad investire. Bisogna riaffermare il principio che, in un paese ad economia decentrata ed imprenditoriale, il credito è un diritto primario. Non che competa, comunque, a tutti, ma che tutti quelli che lo meritano per intraprese sane (nel giudizio delicatissimo ed importantissimo del banchiere) lo devono ottenere. Per questo dobbiamo ritornare a puntare sulle banche territoriali e ripristinare i Mediocrediti.
– Management
Qualcuno sarà portato a pensare che il tema del management non centri con il tema di una nuova politica economica.Ma, invece, c’entra e molto. Infatti ogni politica economica passa attraverso il management, pubblico e privato ed il suo successo o fallimento dipende, in buona misura, dalla qualità del management. La componente pubblica dell’economia è e rimarrà, da noi, sempre rilevante. Quindi le modalità con cui si selezionano e si premiano o sanzionano i manager sono fondamentali. Riflettiamo sulla vicenda del vicepresidente di una delle più importanti imprese cantieristiche del mondo (Fincantieri). “Raramente è dato ravvisare in modo così evidente le connotazioni di un’associazione a delinquere”. Sono parole con le quali la Procura di Milano descrive le attività dell’ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, per il quale sono scattati gli arresti insieme a due imprenditori e ad un manager. Non dunque una mela marcia, secondo il magistrato inquirente, ma una organizzata associazione a delinquere, specializzata in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e riciclaggio. Questo è l’ex tesoriere della Lega difeso, sino a poco tempo fa, come “un buon amministratore” da Umberto Bossi, ai cui pargoli Belsito provvedeva utilità varie, con l’uso di fondi pubblici destinati alla Lega, vice-presidente della Fincantieri.
Storia di delinquenza comune? No! Storia di ordinaria politica in Italia, e se pensiamo che sia sufficiente il nuovo governo per bloccare questa metastasi ed invertirne la rotta, non abbiamo capito niente di quanto in profondità la malattia si sia radicata. Per invertire la rotta, sarebbe necessaria una reazione collettiva e tenace, per un impegno a lungo termine, della quale, invero, si vedono scarsissime tracce. Ma, ancora più tremendo, non è il fatto che la Lega abbia portato a questi alti onori Francesco Belsito, genovese, 42 anni (e poi dicono che l’Italia è un paese per vecchi!), ma che ciò sia avvenuto con l’acquiescenza di tutte le altre forze politiche. Immagino, infatti, che per diventare vice-presidente di Fincantieri esista una qualche procedura, una valutazione fatta da esperti indipendenti, un’audizione presso una commissione parlamentare dove qualcuno, se non del governo complice almeno dell’opposizione, avrebbe potuto porre qualche domanda tipo. Lei cosa ha fatto nella vita? Perché pensa di essere utile alla Fincantieri? E penso che, per essere nominato vice-presidente della Fincantieri, uno debba dimostrare ad una commissione del consiglio di amministrazione (di solito esiste nelle grandi società una commissione retribuzione e nomine) le sue credenziali. Allora scrissi: vorrei sapere i nomi di chi ha nominato un tipo come Belsito a vice-presidente della Fincantieri e perché? La prima parte della domanda è rimasta senza risposta e la ripropongo. La seconda ha trovato ora una risposta nelle parole della Procura di Milano (che Dio la benedica, ora e sempre!).
Se dico queste cose non è per polemizzare contro la Lega, cosa che non mi interessa affatto, ma per riflettere, partendo da un caso concreto, sullo stato di salute della nostra economia, della nostra democrazia, del nostro management.
Sino a quando:
– un popolo, supposto evoluto, come quello lombardo, non imparerà ad applicare, sino in fondo, la sanzione politica del voto verso chi ha male agito e governato;
– i partiti non reciteranno un serio confiteor per le loro malefatte (e ciò che si è visto recentemente, in relazione alla costituzione del nuovo governo, indica che non hanno la minima intenzione di ciò);
– una seria e severa legge non regolerà i partiti; e
– le nomine non verranno inquadrate in procedure serie ed affidabili finalizzate ad affidare gli incarichi a persone capaci, addestrate e per bene e non ai Belsito di turno;
noi continueremo a balbettare, a declinare economicamente giorno dopo giorno, a lacerarci ed a perdere quel poco che ci resta di democrazia.
Ma considerazioni analoghe ed ancor più gravi potremmo fare per il MPS. Quello che emerge dalle indagini sulle modalità di acquisto della Antonveneta (9 miliardi!) e su altre vicende è semplicemente raccapricciante. Accanto ai manager pubblici, ci sono, come importanza, i manager finanziari dei quali una recente inchiesta di Hay Group offre un quadro sostanzialmente negativo, tanto che fa dire a Enzo Riboni che lo commenta “ Cari manager di banche, assicurazioni e società finanziarie, se non cambiate sarà difficile uscire dalla crisi. Tanto più che non ve ne rendete conto, causa un’autostima un po’ troppo elevata. Le amare considerazioni derivano da due indagini di Hay Group, la multinazionale americana delle risorse umane”.
E poi c’è il clima generale della cultura manageriale. Se la grande impresa è stata quasi distrutta in Italia, ciò è dovuto, in gran parte, alla cattiva qualità del management e della cultura manageriale. Ed allora, anche qui, tutti ed in particolare le grandi scuole di management, dobbiamo recitare un grande confiteor.
Marco Vitale
www.marcovitale.it