Se qualcuno mi dà dell’antisemita l’istinto è di spaccargli la faccia. Come reagirebbe il giovane Karl Marx degli anni ‘40 di due secoli fa? O il padre nobile della socialdemocrazia, Karl Kautsky, il quale polemizzava con i primi sionisti sostenendo che il socialismo poteva affermarsi solo con l’assimilazione tra socialisti ebrei e non ebrei? O Sigmund Freud? O Albert Einstein?
Contro Marx riemerge periodicamente l’accusa di antisemitismo giovanile (e non solo giovanile). Robert Mishrahi a suo tempo tacciò il suo scritto del 1844, Sulla questione ebraica, addirittura come “un appello al genocidio”. Nell’introduzione al suo notevole e recentissimo lavoro su Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo (Bollati Boringhieri 2024), Manuel Disegni ricorda che continuano a scontrarsi, almeno dal secondo dopoguerra, “due partiti” ai ferri corti. Quello di chi mette in rilievo un’avversione, un’antipatia dell’ebreo Marx per gli ebrei o l’ebraismo; e il partito opposto di chi ritiene che in questi termini la questione non esista. Marx non ce l’ha con gli ebrei. Ce l’ha con la “Sacra famiglia” degli hegeliani di sinistra, con le astrusità e il trattamento della “questione ebraica” da parte di Bruno Bauer e soci, di tutti quelli che contrapponevano l’esclusivismo, il particolarismo ebraico all’“universalismo” della salvezza cristiana, o all’universalismo della rivoluzione.
La preoccupazione del giovane Marx, come pure quella del Marx maturo, il Marx del Capitale, non sono gli ebrei e nemmeno la religione. È l’alienazione del lavoro trasformato in merce. Così come l’altra cosa che gli viene rimproverata, le battute di spirito sugli ebrei e il loro rapporto col denaro, sparse qua e là come gocce nel mare di un’opera immensa, risentono del clima dei suoi tempi, più che di un più o meno inconscio antisemitismo. Certo se le poteva risparmiare. Sono convinto che, avesse scritto dopo l’Olocausto o scrivesse oggi, ne avrebbe fatto a meno. Ma è inutile discutere di cose che non si possono provare.
Un’altra cosa mi rimane impressa nell’esordio dell’impegnativo saggio di Disegni: quante nefandezze si siano commesse in nome del “lavoro”, così come della “libertà”. È noto che sul cancello d’ingresso di Aushwitz campeggiava la scritta: Arbeit Macht Frei, “Il lavoro rende liberi”. Il lavoro è uno dei capisaldi dell’ideologia nazista. Non per niente il partito di Hitler si chiamava Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi. Le parole possono avere un potere perverso. L’aveva compreso il prigioniero polacco di nome Jan Liwacz, di professione fabbro, che forgiò quella scritta. La B di ArBeit è capovolta, ha la parte panciuta della B in alto anziché in basso, come fosse a testa in giù. Come dire a chi entra: non fatevi ingannare dalle parole.
Altro imputato eccellente di antisemitismo è Karl Kautsky, il “Papa” della socialdemocrazia tedesca nel primo anteguerra. Anche lui è convinto che per emanciparsi, gli ebrei debbano lasciarsi assimilare. Quindi – non si scappa – dissolversi, sparire in quanto ebrei. Anche lui si lascia andare a semplificazioni sociologiche, economiche, classiste. Inventa che la contrapposizione tra “ariani” e “semiti” sarebbe tra agricoltori e cittadini. Gli ebrei sarebbero un popolo di “emigrati” per forza, il cui obiettivo ultimo è riprendere possesso della propria terra. In nome dell’assimilazione polemizza con i primi Sionisti, e poi con il loro Bund socialista separato.
Kautsky non era ebreo. Ebrea era la sua seconda moglie, Louise Ronspeger, Profuga in Olanda, sarebbe stata deportata ad Auschwitz, dove fu uccisa nel 1944. Due dei suoi tre figli avevano sposato ebree. Lui stesso fu accusato dai nazisti di essere ebreo, oltre che marxista, entrambi delitti passibili di morte. Kautsky talvolta la indovina, come quando, negli anni ‘30 equipara il metodo leninista a quello sionista. Altre volte prende cantonate micidiali. Nella polemica che spacca il socialismo francese sull’affare Dreyfus, tra quelli che sostengono che la faccenda non vada politicizzata perché non riguarda gli obiettivi del movimento socialista e quelli che, come Jean Jaurès, sostengono che la ricerca della verità nel processo all’ingiustamente accusato capitano ebreo, la lotta contro l’antisemitismo sia centrale nella lotta per il socialismo, prende la parte dei primi. Invero in buona compagnia: lo stesso fanno Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, molto più a sinistra di lui. Resta fondamentale, malgrado l’età (risale al 1970) il saggio di George L. Mosse (il rampollo della grande famiglia di editori, finito in esilio in America), German Socialists and the Jewish Question in the Weimar Republic. La sinistra tedesca aveva sottovalutato l’antisemitismo, non aveva visto arrivare Hitler, tantomeno lo sterminio degli ebrei. Inutile negarlo: la sinistra, in argomento antisemitismo, qualche problema ce l’ha. Un problema di paraocchi, che risale a molto addietro. Stalin non amava gli ebrei. Non gli fosse venuto un coccolone avrebbe fatto fuori tutti i medici ebrei, accusati di volerlo assassinare, così come prima aveva fatto fuori sistematicamente tutti i capi dei servizi e i suoi formidabili agenti ebrei, colpevoli di aver osteggiato il Patto col diavolo, la sua fugace alleanza con Hitler.
Kautsky non era antisemita, come non lo era Marx. Ma sottovalutava. Un episodio che aveva sconvolto l’Europa fu lo spaventoso pogrom di Kišinëv del 1903. Nella Moldavia zarista, a cavallo di Ucraina e Polonia: succede sempre da quelle parti. La serie di massacri aveva prodotto un esodo biblico. Milioni di profughi ebrei dall’Est europeo si erano riversati verso l’Occidente, provocando un’ulteriore, inarrestabile, prolungata spirale di odio contro ebrei e immigrati. L’Olocausto prima di Hitler. 1918-1921. I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei (Mondadori 2023) è il titolo di un esaustivo studio di Jeffrey Veidinger. Dopo Kišinëv, Kautsky scrisse un saggio in cui, dopo aver doverosamente espresso il suo orrore per il massacro, ne analizza le cause: l’avversione popolare agli ebrei, manovrata dal potere zarista, ma fondata, oltre che sull’ignoranza delle masse, sulla “separatezza” degli ebrei. Da cui il rimedio che lui propone: l’assimilazione. Chissà che posizione avrebbe preso Kautsky sul pogrom del 7 ottobre.
Ci sono parole che andrebbero maneggiate con estrema cautela. Sono esplosive. Una è, appunto, la parola antisemita. L’altra è la parola genocidio. Condivido le ragioni esposte da Luigi Manconi circa il suo rifiuto di definire “genocidio”, malgrado le sollecitazioni di figli e amici, lo strazio a Gaza: “Se chiamiamo genocidio cose che non lo sono, rischiamo di non avere parole per definire ciò che davvero lo è”. Il genocidio è una cosa troppo atroce per essere nominata invano. Così come lo è l’antisemitismo, l’odio per gli ebrei in quanto ebrei. Che è già sfociato in vero genocidio. Non lo si può brandire come una clava per bastonare chiunque dissenta da quel che sta facendo il governo Netanyahu (che comprende, anzi è tenuto ostaggio da una destra estrema di veri e propri fascisti). Non lo si può usare per dare addosso a chi ritiene che la reazione israeliana al pogrom del 7 ottobre sia stata esagerata, eccessiva, sbagliata, o a chi è inorridito dalle stragi e dalla punizione della popolazione civile a Gaza. O a chi invoca un po’ più di criterio nel perseguire l’obiettivo dichiarato di eliminazione di Hamas, della sua struttura, dei suoi battaglioni, dei suoi capi. Antisemiti sono quelli che vogliono gettare a mare gli ebrei, distruggere Israele (che chiamano Stato ebraico, sionista, e così via, come se il nome stesso fosse un tabù, un vade retro). Questo tipo di antisemitismo genocida esiste, è diffuso, è fomentato.
Trovo però incomprensibile, assurdo, oltre che pericolosissimo per Israele, regalare al campo dell’antisemitismo anche tutti gli altri. Antisemita Biden? Antisemita Kamala Harris, la vice di Biden che chiede “un cessate il fuoco immediato”, lamenta “una catastrofe umanitaria” a Gaza, e che, supremo oltraggio, ha ricevuto a Washington senza previo permesso di Netanyahu il suo rivale politico in seno al governo, il generale Benny Gantz? Antisemita il ministro degli Esteri conservatore britannico Cameron, il quale dice che il mondo “sta esaurendo la pazienza” con i metodi di Israele a Gaza? Avevano già dato dell’antisemita a Obama, a Carter e via dicendo. A suo tempo avevano dato dell’antisemita a Roosevelt e a Churchill. Antisemita l’Unione europea, che ha appena sbloccato di nuovo gli aiuti all’agenzia Onu per i rifugiati? Antisemiti l’Onu, il Papa, tutti quanti? Siamo sicuri che i giovani che gridano nei cortei “Palestina libera” siano antisemiti, vogliano la distruzione di Israele e lo sterminio degli ebrei? Antisemita – come si è detto sui media israeliani di destra – il documentarista israeliano Yuval Abraham, perché nel discorso di accettazione del premio all’ultima Berlinale ha parlato di “occupazione”, di “territori occupati” a proposito della Cisgiordania? Il suo documentario No other Land, “Nessuna altra terra”, diretto assieme al co-regista palestinese Basel Adra, tratta dell’espulsione dei palestinesi dalle loro case in un’area a sud di Hebron. Conseguenza: tutti antisemiti, nessuno antisemita.
Passi Wagner, che antisemita lo era davvero, al punto che Daniel Barenboim, il quale si vanta di avere cittadinanza spagnola, israeliana e palestinese, fu quasi linciato quando, rompendo un lungo tabù, lo diresse in Israele. Ma a rigore si potrebbe tacciare di antisemitismo Dante, Shakespeare, Chaucer, Hegel, Puskin, Dickens (avete presente Fagin di Oliver Twist?), Dostoevskij, Gogol, magari Rossini e Verdi, e chissà quanti altri. Ci sarà pure una differenza tra questi e il Céline di Bagatelle per un massacro, o l’Ezra Pound amato dagli ultrà neri nostrani.
Un caso a parte è l’antisemitismo imputato agli ebrei. “Traditori del proprio popolo”, “odiatori di sé stessi e della propria nazione” e così via. “Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra”, recita la messa al bando dalla sinagoga della comunità ebraico-portoghese di Amsterdam dell’immigrato e filosofo Baruch Spinoza. La sua colpa? Sostenere che la Bibbia non andava letta come la leggevano i capi politici della comunità, i rabbini fanatici. Sento discorsi del genere sui social, dirette a chi osa criticare Israele e il suo modo operandi a Gaza. E mi vergogno, prima ancora di arrabbiarmi. Poco ci manca che diano dell’antisemita, dell’utile idiota di Hamas a personalità del calibro di David Grossman, di diversi ex premier di Israele ed ex capi del Mossad e di Tsahal, come hanno disgustosamente detto dell’ex presidente della Knesseth, Avraham Burg.
Il Novecento è zeppo di ebrei, come dire, “laici”, non in linea con le frange ortodosse ed estremiste delle rispettive comunità, anzi estranei a esse, additati più o meno come eretici, poco ebrei. Freud, oltre a essere malvisto per le sue libertà teoriche, era arrivato alla rottura col movimento sionista di Vienna perché non si era associato al loro modo di condannare un massacro di immigrati ebrei nella Palestina degli anni ‘30. “Non posso aderire a quello che mi chiedete”, aveva risposto con pacata cortesia, ma anche fermezza, ai suoi interlocutori in una lettera datata 28 febbraio 1930, conservata alla Biblioteca nazionale di Israele e rimasta inedita per oltre 60 anni. “Non penso che la Palestina possa mai divenire uno Stato ebraico, né che i mondi islamico e cristiano siano disposti a lasciare i loro luoghi santi in mani ebraiche”, scriveva allora. Peggio: giungeva a sostenere che “il fanatismo sfrenato del nostro popolo è in parte responsabile per il risveglio della diffidenza araba”. Il recettore della lettera vi aveva annotato, a matita: “Non mostrare agli estranei”. Sono certo che oggi lo avrebbe denunciato come antisemita. Non è che Freud le abbia imbroccate tutte. Si era ostinato a restare a Vienna nella convinzione che i nazisti non avrebbero osato toccarlo, fino a che lo salvarono in extremis, praticamente spedendolo via di peso a Londra. Le sorelle furono ammazzate ad Auschwitz.
Certo non andava giù agli ultrà che un altro ebreo molto celebre, Albert Einstein, anche lui salvatosi per il rotto della cuffia con l’esilio, sostenesse che “la radice psicologica dell’antisemitismo sta nel fatto che gli ebrei sono un gruppo di persone a sé”, siano visti come “una diversa tribù”. Per Einstein “la religione ebraica, come tutte le altre religioni, è incarnazione di superstizioni infantili”. “Il popolo ebraico, al quale appartengo volentieri, e con la mentalità del quale ho una profonda affinità, per me non ha qualità diverse da quelle di tutti gli altri popoli”: questo il modo in cui Einstein liquidava ogni idea di superiorità del “popolo eletto”.
L’antisemitismo, l’invito allo sterminio, sono cose troppo serie perché le si possa elargire con leggerezza a destra e a manca. L’infamia non era stata solo dei nazisti. In Francia l’antisemitismo assassino era nato da radici di destra ma anche del populismo di sinistra, dall’anarcosindacalismo di Sorel e dall’estremismo nato da costole del Pcf, come il Partito popolare francese di Jacques Doriot. La cosa che più fa impressione è che continuarono a essere fanaticamente antisemiti anche quando era ormai evidente che il Terzo Reich aveva perso. Nel suo Récidive 1933 (Presses Universitaires de France, 2019), Michaël Fœssel cita un editoriale di Je suis partout, il settimanale più beceramente hitleriano pubblicato durante l’occupazione nazista. È del 23 giugno 1944. Si intitola “Le Napus”. Riprende il titolo di un romanzo di Léon Dadudet pubblicato nel 1927. Parla di un’arma segreta in grado di dissolvere totalmente le vittime. Un ragazzino vede andare in fumo il nonno ed esclama: “N’a pus [il n’y ait plus, non c’è più] il nonno”. L’editorialista esprime l’auspicio che presto si possa dire altrettanto, finiscano in fumo, gli ebrei. Proprio quando il vento portava le ceneri dei forni quasi fino a Parigi. Purché qualcuno non pensi, nemmeno per iperbole, che si possa dire “Napus” dei Palestinesi.
Questo articolo è stato in origine pubblicato sul Foglio di sabato 9 marzo.