L’amico Luigi mi scrive. Ma privatamente. Gli ho chiesto il permesso e riporto le sue interessanti considerazioni.
Platone sostiene che la Bellezza tra tutte le idee dell’Iperuranio è quella più prossima all’uomo, poiché coinvolge la parte più sensibile dell’animo e come tale è una sorta di ponte proteso tra la precarietà della condizione umana e la sapienza. Tant’è che, laddove nella ricerca della verità e della felicità la certezza razionale mostra la corda, essa sopperisce attraverso la narrazione e l’immaginazione. Sia pure con linguaggio mitico, con responsi vaghi e allusivi, non in grado di esibire verità apodittiche e ultimative.
Com’è arcinoto, lo spettacolo della volta celeste è da sempre una delle metafore più avvincenti ed enigmatiche della bellezza, sicché per lunghissimo tempo la dimensione sopralunare è stata ritenuta il meglio dell’essere, il luogo della purezza metafisica, della perfezione e dell’immortalità. E quindi ha rappresentato neoplatonicamente un possibile argomento, per altro mai risolutivo per gli stessi medievali, a sostegno dell’esistenza di Dio e delle nature angeliche. Ma ha anche rappresentato un punto di fuga privilegiato per osservare e confrontare secondo una prospettiva critica la natura e le vicende umane.
Margherita, in quanto astronoma agnostica e post-galileiana, sapeva che le cose non stanno proprio così, che anche nelle galassie distanti migliaia di anni luce a ben vedere vige lo stesso destino terreno: l’entropia, la tendenza irreversibile al disordine e all’imperfezione, alla corruzione e alla morte. Tutto quello che sulla vecchia e umana Terra rimanda al pensiero della finitezza e del male, e alla conseguente domanda di senso.
Dunque come qualsiasi scienziato moderno ella non fingeva ipotesi e sapeva che perfino le stelle hanno una certa durata, nascono e diffondono per un certo tempo la loro energia, poi agonizzano e cessano di esistere sotto quella forma. Anche se dalla minuscola Terra la loro luce continua ingannevolmente ad apparire più che mai vivida e ammiccante. Forse proprio per questa segreta analogia non ha esitato ad amare con passione lo studio del cosmo, sedotta dalla sua infinita varietà e complessità, dall’immagine delle smisurate forze in gioco; appunto, dalla sua incredibile bellezza. Con la stessa intensità di tanti illustri astronomi, filosofi, metafisici e teologi che l’hanno preceduta nel passato.
Perciò mi chiedo se veramente Margherita intendesse negare la possibilità di un senso, dissociando la domanda di felicità dalla curiosità scientifica.
Non intendo farle dire cose che non ha affermato, né probabilmente pensato. Nemmeno voglio costringerla ad una petrarchesca ascesa al Monte Ventoso. Tuttavia non mi interessano le sue parole come fosssero un epitaffio scolpito nella pietra. La sua statura intellettuale, la sua opera e la sua stupenda umanità ci insegnano molte cose, e quindi vanno fatalmente soggette all’interpretazione. Pertanto, se il punto è l’aut aut tra l’ammissione o meno della possibilità di un senso dell’esistenza, allora mi chiedo se una simile dicotomia possa essere d’aiuto per comprendere la condizione umana.
Il dubbio è che la negazione di una determinata proposta di senso comporti automaticamente la privazione di qualsiasi istanza possibile, e se ciò possa risultare davvero così rasserenante e liberatorio come pare sostenere Epicuro. Mi chiedo inoltre se può dirsi una persona colui o colei che nega la più semplice suggestione speculativa, ovvero che non ricerca in qualche modo non solo il piacere ma la felicità; mi chiedo fino a che punto il pensiero scientifico possa essere deprivato della sua pregnanza storico-filosofica e confinato nella dimensione della tecnica e della teoria dei modelli, secondo lo schema delle due culture.
Forse Margherita, negando personalmente ogni interesse metafisico, intendeva rifiutare l’immagine che di esso aveva, quella appunto del barbuto signore torvo e controriformistico assiso nel suo trono celeste. Ma allora, come non essere d’accordo?