Autunno on the road al Torino Film Festival, la cui 32.ma edizione si è chiusa sotto il segno selvaggio di Wild. È il film del franco-canadese Jean-Marc Vallée (Dallas Buyers Club), da oggi su tutti gli schermi Usa, co-prodotto e interpretato dalla bionda e indomita nomade Reese Witherspoon già in predicato per l’Oscar (uscirà da noi nel febbraio 2015). Wild è stato il suggello del festival sotto la Mole, dove ha sede il Museo Nazionale del Cinema diretto da Alberto Barbera, sempre affollatissimo e tuttavia ordinato nei suoi percorsi didascalici, ormai una tappa ricorrente delle gite scolastiche in arrivo dall’Italia e dall’estero. Al Museo fa capo una sapiente rete di rassegne e mostre esenti dall’«effimero» altrove malinconicamente in auge. Certo, la crisi si fa sentire pure nell’economia culturale torinese, ma pare attutita dai notevoli investimenti che negli ultimi lustri hanno trasformato il Fiat-Nam in una città dell’«immateriale». Il «segreto», qui, sta nella effettiva trama pubblico-privata, nel sistema dei musei e delle fondazioni d’arte riunite in un comitato da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, nei costanti restauri delle vecchie strutture industriali o militari (come la nuova sede della scuola Holden nel Borgo Dora), nella governance degli enti culturali relativamente lontana dalla politica.
Così Torino – pur sempre condannata, o forse beata, nell’ossimoro della metropoli provinciale – prova a difendere un ruolo cui giusto il festival del cinema fece da apripista negli anni Ottanta. «Cinema Giovani» si chiamava allora e fu il primo festival italiano a svolgersi in un contesto urbano e a puntare sul clima informale o «militante», per dirla con un termine dell’epoca. Dopo le stagioni in cui la direzione è stata affidata a registi quali Moretti, Amelio e Virzì (rimasto nel 2014 come guest director), il Torino Film Festival è ora guidato a tutti gli effetti da Emanuela Martini, curatrice pure della bellissima retrospettiva biennale sulla New Hollywood (magari avrebbe meritato qualche «amico americano» in più fra gli ospiti). Ecco, da Duel e Sugarland Express, da Welcome to L. A. a Harry and Tonto sono tanti i titoli «sulla strada», classici degli anni Sessanta e Settanta, di cui Wild riecheggia gli umori o le citazioni da Thoreau, Wordsworth, Dickinson, Emerson… D’altro canto, l’opera di Jean-Marc Vallée si inserisce nel filone del cinema in cammino «alla Chatwin» – quindi oltre il Beat e a tu per tu con l’asprezza solitaria del viaggio – che annovera Into the Wild, 127 Hours o Tracks.
Sceneggiato dallo scrittore britannico Nick Hornby, il film si basa sul libro autobiografico di Cheryl Strayed, Wild – Una storia selvaggia di avventura e rinascita. Cheryl, meno che trentenne, decide di intraprendere l’avventura a piedi lungo il Pacific Crest Trail, migliaia di chilometri dal deserto della California meridionale ai boschi della frontiera con il Canada. È un singolare modo di elaborare il lutto dopo la morte della madre stroncata ancora giovane dal cancro (Laura Dern) e per non annegare nel naufragio del suo matrimonio. Dolori e amarezze che l’hanno spinta verso la droga o il sesso compulsivo. Il sentiero lungo il Pacifico è una catarsi cercata sfidando il caldo o il gelo, la fame, la sete e incontri non proprio rassicuranti. A confortare Cheryl/Reese vi sono l’apparizione di una volpe nella neve o la subitanea fraternità con altri viaggiatori. È una storia al femminile scandita dalla colonna sonora che include la leggendaria El Condor Pasa (If I Could) cantata da Simon & Garfunkel, Suzanne di Leonard Cohen e Tougher Than The Rest di Bruce Springsteen.
E se il film che ha vinto il festival, il noir francese Mange tes morts di Jean-Charles Hue o il magnifico western The Homesman di Tommy Lee Jones (già visto a Cannes), sono parimenti dei road movie, altri titoli in rassegna rinviano al femminismo sotteso o manifesto, ironico o pragmatico, alla ribalta della manifestazione torinese. È il caso di N-Capace di Eleonora Danco, esordio di un’autrice teatrale che ha vinto la menzione speciale della giuria presieduta da Ferzan Ozpetek. Ma anche dell’interessante documentario Triangle di Costanza Quatriglio, che ha ottenuto il Premio Cipputi. Il film mostra e incrocia – al ritmo incalzante delle musiche di Teho Teardo – due tragedie speculari, a un secolo di distanza, con immagini di repertorio e riprese pugliesi.
Da una parte, infatti, ecco la memoria dell’incendio nella fabbrica «Triangle» di New York del 1911, nel quale morirono 146 persone, in gran parte operaie immigrate. Dall’altra, il crollo della palazzina di Barletta nel 2011 che costò la vita a cinque lavoranti tessili. Uno sguardo acuto e sensibile sulla «globalizzazione» dei diritti negati, sul selvaggio West quotidiano della porta accanto.
Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 5 dicembre 2014